ARGOMENTI PROPOSTI DA Mario PULIMANTI: 1) LUCA ZAIA 2) COSTITUZIONE MODIFICATA 3) GIOVANI E LAVORO 4) DIVORZIO

1) ZAIA

Il ministro dell'Agricoltura, Luca Zaia ha spiegato che la precedenza accordata ai residenti in Veneto da oltre 15 anni nelle graduatorie per i servizi pubblici, prevista dalla proposta di legge presentata in Regione dalla Lega, è un atto di giustizia.

Infatti la proposta della Lega di dare la precedenza per l'assegnazione di case popolari, asili nido e buoni scuola ai residenti da 15 anni, ha trovato in Zaia un convinto assertore e non si preoccupa della freddezza con cui è stata accolta dagli alleati.

Per il ministro Zaia esiste la necessità di dare una precedenza ai veneti nel sostegno sociale perché nei territori vengono per primi i cittadini locali e -afferma Zaia- "lo dice chi a Treviso si è occupato per anni dell'integrazione degli immigrati: in città avevo dato vita allo sportello per gli stranieri che aveva oltre 13mila utenti l'anno. Dobbiamo fare dell'integrazione vera, non della demagogia". Sempre secondo il Ministro agricolo "la gente è stanca, fatica ad arrivare a fine mese, se si sente tradita da chi amministra, finirà con il riprendersi il potere". Oltretutto, a suo parere "il nucleo fondante di una società è la famiglia e va difesa con tutti i mezzi leciti". Zaia afferma l'esistenza dei un reale problema dei servizi sociali bloccati dalla presenza degli stranieri. E, per risolverlo, confessa che "rispolvererei anche una mia vecchia proposta, quella di istituire per le liste di collocamento tre graduatorie: indigeni, oriundi e stranieri. Poi cercherei anche di distinguere tra immigrato ed immigrato: quanti vengono in Italia perché grazie alle parabole vedono i nostri reality tv e pensano che qui sia tutto un paradiso? Ci sono invece immigrati che lavorano duro, si affittano una casa o magari la comprano. Vorrei che chi si riempie la bocca di solidarietà facesse anche queste considerazioni".

Pugno fermo anche sulle moschee che si stanno costruendo in tutta Italia, anche se afferma che "prima di affrontare un ragionamento sull'opportunità o meno di costruire una moschea, se ne devano fare altri. Il primo è il rispetto delle regole. Quello che mi infastidisce è la spettacolarizzazione, quelle moschee itineranti dove si vedono 10-15 persone che pregano. E gli altri? Non vorrei che dietro a questa richiesta ci fossero altri fini, temo che il dialogo stia andando verso il fallimento.

Ho visto da parte di alcuni immigrati una posizione molto rigida".

Oltretutto sembra di essere arrivati ad un muro contro muro, tanto che Zaia afferma di aver "sentito dichiarazioni molto forti, ho visto in televisione interviste con persone molto esagitate. C'è chi ha dialogato in tema di moschee in modo civile, oggi mi sembra che ci siano agitatori. Non è più solo un fatto di preghiera".

Sì, ha ragione Ministro Zaia.

Anch'io la penso così.

2) COSTITUZIONE

Non c'è nessuna nostalgia autoritaria nel sostenere che la nostra Costituzione andrebbe modificata.

Certo, ha risollevato l'Italia moralmente e politicamente dai disastri della dittatura e della guerra.

Anche se può sembrare che la storia ci dica il contrario, perché molte Costituzioni sono nate proprio da conflitti epocali: quella americana dalla Rivoluzione, quella tedesca e nipponica dalla sconfitta del 1945, quella francese dalla battaglia di Algeri.

Ma esistono anche eccezioni, come la Gran Bretagna, che ne fa addirittura a meno.

La nostra Costituzione comincia a sentire il peso degli anni.

Basti pensare all'articolo 42.

Tale norma, attribuendo alla proprietà privata una funzione sociale, sembra porsi in contrasto con l'attuale statuto europeo.

Per non parlare dell'incompatibilità tra le sue regole rigide e la flessibilità normativa richiesta dalle frenetiche trasformazioni di un mondo ormai omogeneizzato.

Per fare un esempio, il ricorso al giudice amministrativo previsto dall'art 24 , è teoricamente una garanzia contro gli abusi dell'autorità.

Ma la sua formulazione rigida lo rende ormai applicabile a tutto, dalla bocciatura dello studente al trasferimento di un funzionario, dalla collocazione di una discarica alla costruzione di un'autostrada, di un aereoporto o di una centrale nucleare.

Con la conseguenza che ogni provvedimento amministrativo, per quanto necessario e urgente, è soggetto alla censura di un potere estraneo e politicamente irresponsabile, che ne vanifica ogni utilità.

Cosicché mentre in Cina si costruisce un ponte di tre chilometri in un anno, in Italia ce ne vogliono dieci per una campata di venti metri.

Mentre il mondo corre, noi restiamo fermi.

Non solo.

In molti casi la Costituzione pare contraddire sé stessa, dato che alcune recenti riforme sono state inserite senza un organico coordinamento.

Così il sistema processuale accusatorio, previsto dall' art 111, è incompatibile con la composizione del Csm e l'obbligatorietà dell'azione penale, contemplate dagli articoli precedenti.

Ma è incompatibile anche con sé stesso, laddove consente che l'imputato possa ricorrere contro la sentenza di patteggiamento che lui stesso ha chiesto e ottenuto.

Queste cose ormai sono note e in gran parte condivise. Tanto che, anni fa, la Commissione bicamerale presieduta da D'Alema aveva presentato una proposta di riforma coraggiosa, pur risentendo del timore derivato dal fatto che la nostra Costituzione può essere modificata, ma non sostituita.

Ora i tempi sembrano maturi per ripresentare la proposta di riforma, allora accantonata.

Del resto, non sarebbe più attuale parlare di una Nazione democratica fondata sulla libertà e sul lavoro?

3) GIOVANI

E' davanti agli occhi di tutti noi la consapevolezza delle difficoltà crescenti che i giovani incontrano sul mercato del lavoro in Italia, in particolare se intendono affrontare attività qualificate.

Ancor più, se sperano di fare carriera, di imporsi, fino a occupare ruoli dirigenziali.

Il nostro sistema, infatti, è chiuso e scoraggia la concorrenza, non solo sul mercato, ma anche nell'occupazione. Soprattutto per quel riguarda le professioni più ambite, che garantiscono maggior prestigio.

Per cui i giovani si vedono condannati alla sindrome di Peter Pan (non crescere mai). Oppure alla sindrome del principe Carlo (in attesa di una successione che non arriva mai).

Ciò avviene sia nel settore pubblico che in quello privato. I posti di comando, le posizioni dirigenziali sono saldamente occupate da persone anziane. Mentre l'accesso a queste professioni è largamente condizionato da logiche di casta e di famiglia.

Così, si entra in base al cognome, alle amicizie, alla prossimità con chi conta.

Per cooptazione. Un processo governato dall'alto.

Sic res stantibus, uscire dall'Italia, per i giovani diventa necessario.

Semmai, il problema è che le ricerche sugli studenti universitari europei che hanno svolto l'esperienza dell'Erasmus (trascorrendo, cioè, periodi di studio in università di altri paesi della UE), mostrano come gli italiani siano ancora fin troppo pigri e resistenti, sotto questo profilo.

I giovani europei, infatti, considerano normale la prospettiva di lavorare e vivere fuori dal paese d'origine.

Delineano, cioè, un percorso biografico e professionale aperto.

Nel quale, se necessario, sia possibile lavorare e risiedere in un altro paese europeo, diverso e lontano da quello in cui sono nati e cresciuti.

In Italia emerge, invece, un orientamento diverso. Trasferirsi all'estero per motivi di studio e lavoro è considerato utile e, anzi, necessario da un numero crescente di giovani, ma solo per un periodo delimitato.

Il richiamo della famiglia, il legame con il territorio resta forte.

Il che, ovviamente, è un valore.

Ma anche un limite, perché condiziona i percorsi di vita e la carriera professionale dei giovani; e perché asseconda i vizi del nostro mercato del lavoro e del nostro sistema economico e professionale: rigido e chiuso.

Perché, infine, accentua la struttura verticale e gerontocratica del nostro paese.

Dove i figli non crescono, perché controllati da genitori che vogliono restare per sempre giovani e da anziani che, coerentemente, non accettano di invecchiare.

Se gran parte dei giovani ritengono necessario andarsene dall'Italia, per inseguire un lavoro più adeguato alle loro competenze e alle loro aspettative, allora, meglio lasciarli andare.

Torneranno, insieme ad altri giovani di altri paesi, quando il nostro paese sarà più accogliente e aperto. Quando i legami familiari e personali conteranno meno della competenza, per fare carriera nel sistema pubblico e privato.

Quando i ventenni saranno considerati una risorsa sociale su cui investire e non una specie rara, da proteggere e controllare.

4) DIVORZIO

Chi non conosce Porta Portese?

Ricordo ai pochi ignari che è il mercato domenicale più grande e più famoso di Roma. Si estende da via

Portuense a via Ippolito Nievo, arrivando fino a viale Trastevere e ovviamente alla piazza che da cui prende il nome, piazza di Porta Portese. Come ogni mercato che si rispetti apre molto presto, intorno alle sei, poi si smonta tutto intorno alle quattrodici. Porta Portese è talmente grande e vario che vi si può trovare di tutto: vestiti usati e nuovi, panini con salsiccia e porchetta, marche tarocche, vecchie biciclette, caschi da moto, valigie, borse, accessori per la casa, piante, dischi, antiquariato, mobili, dischi, cd, ombrelli, taglia puntarelle, portachiavi, giocattoli, cosmetici e ogni cosa vi venga in mente. Oggi é appunto domenica e decido di andare a Porta Portese con Alessandro, il mio secondogenito di 14 anni. Penso che i ragazzi della sua età creino un pò di disordine, a volte non sanno dove mettere le mani, hanno un'espressione stupita e non riescono a stare del tutto diritti. Parcheggio a Via Marconi. In un primo momento da qui non mi oriento molto bene. Non ho il coraggio di chiedere in che direzione sia il mercato, ma lo trovo ugualmente senza grosse difficoltà. Supero

la cupola di una Chiesa, poi, incerto su quale direzione prendere in una piccola piazza color rosso, scorgo, lontano sulla destra, delle figure affollarsi alacremente sotto uno scintillio di luci elettriche. Prendo quella direzione e scopro che la strada conduce direttamente al mercato; prima vedo uomini e donne dall'aspetto sconsolato seduti per terra tra merci disposte su vassoi o pezzi di stoffa: orologi, cianfrusaglie e goiellini da poco prezzo in pelle e argento. Subito dopo, lungo la strada, si trova un tetto irregolare, rattoppato, di plastica e lamiera ondulata, che copre rastrelliere di tessuti dai colori brillanti e tavoli ricolmi di libri di seconda mano. E' una sorta di lingua rudimentale che sporge dall'apertura ad arco di un ampio fabbricato bruciato, brulicante come un alveare. All'interno, la strada si divide, diramandosi confusamente tra rotoli di tappeti, barattoli di spezie rosse e gialle, mucchi di frutta, altri indumenti e rotoli di brillante tessuto sintetico. Forse il mercato è realmente una specie di griglia di passaggi, ma appare come un formicaio caotico. Un profumo caldo, gradevolmente confuso, è nell'aria, di sale e zucchero bruciato; di nocciole tostate, zenzero, cipolle e carne che frigge. Riesco a malapena a muovermi, tanta è la gente. Non sono propriamente alla ricerca di un chiosco preciso; ma le prime bancarelle verso cui la folla mi ha trascinato non sono ovviamente adatte ai miei gusti: più che altro vi si vendono ciondoli d'argento su cinghie di pelle. Poi mi trovo di fronte a un chiosco più ampio, brillante di luce che si riflette su gioielli e quadri dorati, sembra quasi una versione ridotta e confusa di un negozio che si trova vicino a casa mia, a Ostia. Ci sono gocce di ambra che pendono da catene d'argento e dai ganci degli orecchini, spille a forme di ragno e -vedo non appena riesco a liberarmi dalla folla che mi circonda- statuette d'imitazione romana e una serie di ampi vasi rosso carne, a forma di grossi globi, di marmo o di un materiale molto simile. C'è una donna seduta al centro del chiosco, su una sedia di legno, con le gambe distese. E' pesante e tarchiata, e sarebbe sembrata fuori luogo in mezzo a tante cose scintillanti se non avesse quella espressione decisa di possesso. Si alza, al nostro ingresso, con sguardo inquisitorio. Una donna più giovane, intenta distrattamente a spolverare una figura di cane, la imita. prende le nostre ordinazioni: un Campari per me e una Coca Cola per Alessandro. Ci sediamo. Sul tavolo, una rivista. La leggo, mentre Alessandro gioca con la sua PSP. Parla di Papa Luciani. Vengo così a sapere che la fermezza che caratterizzò gli interventi di Luciani a tutela degli elementi teologici che egli riteneva indiscutibili lascia il campo a una riflessione sulla morale. Spicca l'attitudine verso i problemi relativi alla morale familiare, allora particolarmente scossa dalle discussioni che accompagnarono l'introduzione del divorzio e la prima significativa diffusione della contraccezione farmacologica. In quest'ambito gli interventi di Luciani risultano caratterizzati dall'esigenza di proporre un'applicazione della dottrina cattolica che assumesse positivamente, per quanto possibile, le istanze, le difficoltà, le sofferenze delle persone. Dopo l'uscita dell'enciclica Humanae vitae assunse le direttive di Paolo VI con il consueto atteggiamento di piena obbedienza, ma ammise di avere desiderato una decisione diversa, che rendesse possibile il ricorso alla contraccezione. In un'altra occasione auspicò che i progressi della scienza consentissero al magistero di modificare il divieto dell'Humanae vitae. Luciani si oppose costantemente alla legalizzazione del divorzio, ponendo l'accento sulla difesa del matrimonio come sacramento, una dimensione che egli riteneva inscindibile dai suoi risvolti sul piano civile. Gli interventi compiuti nel 1969 in

occasione del dibattito parlamentare sulla legge Fortuna-Baslini, rivelano una concezione della società che faceva leva sul diritto della maggioranza. Tuttavia nell'opporsi con fermezza al divorzio Luciani si dichiarava, in termini misurati, incline ad accettare una legalizzazione delle "unioni di fatto".

Luciani, consapevole di assumere una posizione più aperta di altri esponenti del cattolicesimo italiano, raccomandava di superare l'impianto legislativo di orientamento discriminatorio e di riconoscere una pari dignità e potestà giuridica alla donna nell'ambito della famiglia. Valicando gli stessi limiti della riforma del diritto familiare, le unioni di fatto furono proposte come "male minore", nella speranza che in quel modo si potesse evitare l'introduzione del divorzio. Luciani riteneva che esse non dovessero ottenere una piena equiparazione giuridica al matrimonio, ma considerava necessario garantire loro un sufficiente riconoscimento sul piano legislativo. Così scriveva: "Ho accennato sopra a lacune della progettata riforma. Una mi sembra importante. E infatti: ci sono, innegabili, le situazioni patologiche della famiglia, i casi dolorosi. A rimedio, alcuni propongono il divorzio, che, viceversa, aggraverebbe i mali. Ma qualche rimedio, fuori del divorzio, non si può proprio trovare? Tutelata una volta la famiglia legittima e fatto ad essa un posto d'onore, non sarà possibile riconoscere con tutte le cautele del caso qualche effetto civile alle unioni di fatto? Non si potrà, per esempio, migliorare con la legge la situazione dei figli nati fuori del matrimonio? O regolare alcuni interessi patrimoniali? Sono unioni illegittime si obietta è un rischio legalizzarle, sia pure

parzialmente: rischio per il torto che si farebbe alle famiglie legittime e per un certo incoraggiamento che si darebbe a nuove unioni di fatto. Ma se, insieme, questa parziale legalizzazione impedisse la legge molto peggiore sul divorzio e rimediasse ad altri innegabili e gravi disagi? Non sono io solo a pensarlo. E non sono solo a pensare che su questo terreno i cattolici e altre forze politiche potrebbero trovare un accordo, evitando gli scogli insidiosi del divorzio". Luciani cercava una soluzione, che fosse accettabile dal punto di vista dottrinale e insieme realmente praticabile, per le molte situazioni di conflitto irrisolvibili. La legalizzazione delle unioni di fatto gli pareva assicurasse alcune garanzie ai contraenti (le sue preoccupazioni erano volte a sostenere soprattutto la posizione della donna, considerata il coniuge meno tutelato dal diritto e dalle reali condizioni della società italiana) e all'eventuale prole, e lasciava aperta la via d'uscita delle separazioni senza mettere in discussione il concetto sacramentale di indissolubilità del matrimonio. Ne conseguiva la sua implicita opposizione al matrimonio civile, in una prospettiva di cristianità che riconosceva come unico vero matrimonio quello cattolico, riproposto come fondamento del modello familiare per tutta la società. Ma appare chiaro anche il suo tentativo di offrire una soluzione pragmatica a quelle situazioni di tensione che rendevano insostenibile il mantenimento di un rapporto di coppia. In seguito, Luciani non tornò pubblicamente sulla questione della legalizzazione delle unioni di fatto, ma rimase evidente che il suo orientamento in campo morale era segnato da un non comune tratto di benevolenza.

Poso la rivista. Bevendo il mio apritivo, rifletto. Il matrimonio? Una società per azioni. Sei coppie su dieci stanno assieme solo per denaro. Oggi se non si arriva al divorzio è più per gli interessi economici in comune che non per il bene dei figli o per mantener fede a un vincolo sacro. In un caso su tre oggi il matrimonio va già in crisi entro il primo anno, ma spesso anche da subito, appena si inizia a vivere assieme o, nei casi più fortunati, quando arriva il primo figlio. Dati sconcertanti che danno la misura di quanto sia considerato difficile e problematico oggi il matrimonio. Le prime cause dell'insofferenza reciproca? La difficoltà della convivenza e la gestione del patrimonio familiare. Conclusione: solo per il 13% delle coppie la prima crisi seria arriva nel giro di tre anni e solo l'8% delle coppie sposate oggi va incontro alla classica crisi del settimo anno. Si giunge così al divorzio. Così spesso che Benedetto XVI parla di è emergenza per separazioni e divorzi e ricorda: "L'uomo non può separare ciò che Dio ha unito". Si direbbe che l'uomo d'oggi abbia sviluppato un'idiosincrasia per il matrimonio. Nei suoi confronti si sente insicuro, perfino deluso, come si vede dall'enorme aumento dei casi di divorzio in tutti i Paesi dell'occidente. Il divorzio sembra ormai rientrare fra le caratteristiche delle società più avanzate e progressiste. Ma si può pensare al divorzio come un progresso, un vantaggio solo nella misura in cui si ritiene che il matrimonio abbia probabilità di insuccesso (così come si richiedono garanzie per la restituzione del denaro solo quando si teme di non rimanere soddisfatti dalla merce acquistata). Non c'è dubbio: un mondo che inizia a credere nel divorzio ha cominciato a perdere fiducia nel matrimonio. Va bene, caro amico che hai avuto il coraggio di leggermi fino a qui. E' finita, puoi andare a casa. Va a casa a trovare la tua famiglia. Togliti quell'espressione, non sentirti così. Non è colpa tua. Non potevi fare altro. L'intera faccenda è vergognosa. Sono tempi difficili quelli in cui viviamo.

Questo è tutto.

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