Il tempo dei ricordi perduti
“Ah, perché non son io co’ miei pastori?”, è l’amaro sospiro dannunziano legato al mondo della transumanza in terra d’Abruzzo. Gli fa eco un solerte custode delle greggi che si è fatto poeta lassù sui monti graffiati dal vento nelle notti di plenilunio o in cerca della nuova falce luminosa del cielo: quel Francesco Giuliani che per lunghi lustri si è nutrito del candido frutto dei suoi armenti e delle incartapecorite pagine di un antico sapere in nome di un amore ineffabile mai spento, prostrato innanzi al “cenere muto” della sua dolce Maria che lui ha seguito a poche lune dal suo lacerante, intollerabile distacco. Di lei ne ha fatto quasi una sacra imago incastonata nel legno di rovere, da carezzare, da divorare con gli occhi e col cuore, da pregare nelle notti insonni della sua disperata solitudine. Un’antica storia. Toccante e suadente, come la cantilenante nenia di una madre china dolcemente sul suo adorato fardello di carne e piccoli sorrisi. Una come tante, consumate tra le sontuose vette della Majella. Ne è nata così una pièce lirica e toccante, “La stanza del Pastore”, di Vincenzo Mambella, incastonata nell’incanto serotino del Castel Grumello di Montagna, sotto lo sguardo vigile del Fai retto da Ida Oppici, tra tronconi diruti di mura sventrate e l’antica torre che svetta nel suo gemino abbraccio, nel velluto spugnoso delle lunghe ombre che scendono piano, vestite infine dalle luci policrome degli spot scenografici di Francesco Vitelli. E la natura ci mette del suo. Nell’ angolo fondo, tra tremule fiammelle che fanno l’occhiolino, uno spicchio di luna venata d’argento. E poi l’incanto fatato della musica arcadica dal sapore bucolico di Giuliano Di Giuseppe al piano, secondato da Pierluigi Ruggiero al violoncello, Zoltan Banfalvi al violino, Luca Trabucchi alla chitarra, e Claudio Di Bucchianico all’oboe, che dipinge l’atmosfera della ruvida stanza di un pastore. Che giunge con suo greve passo scandito dall’ultimo belato negli stazzi e dal cupo acciottolato che lui scalcia ritroso varcando l’uscio stridente della povera e pur dignitosa dimora. E lì, a Campo Imperatore, esule transumante dal Gran Sasso al Tavoliere delle Puglie, svernerà per lunghi mesi, a leggere e sognare, a scrivere e incidere nella dura pietra e nelle morbide carmi del legno del pino e del rovere antico, per ridiscendere infine lungo l’”erbal fiume silente” che porta al “tremolar de la marina”. La poesia, il suo pane quotidiano, lenirà l’affanno del ricordo che appare e ricompare nella sua mente come un mosaico di miriadi di schegge di uno specchio franto che si ricomporrà ogni volta solo al suo ritorno. E tutto parrà dimenticato. Sul nudo selciato del Castel Grumello un ispirato Edoardo Oliva dà corpo e anima all’intensa, drammaturgica narrazione. Seduto sul suo scanno, in una nicchia di luce fluttuante che lumeggia sulla rozza bugia, al termine della dura fatica tra gli armenti, uniche vive sembianze in un mare d’abbandono, si è fatto un simulacro per la pia preghiera, una cornice di scorza dura di castagno in cui chiodare con tenerezza il volto della sua amata che carezza come una Madonna. La sua Marì. E la sua voce è un canto amaro che germina cupi pensieri, mai rimpianti, facendosi poi soffio incostante portato dal vento dei ricordi mentre fuori urla la tempesta e strepita facendo il diavolo a quattro tra i fessi delle rocce, squassando quasi con violenza selvaggia le radici delle aghifoglie in affanno, mentre lontano s’ode il torvo ululato dei lupi. Ritorna allora in capo e in petto quell’“amor che move il sole e l’altre stelle” che illumina squarciando come un lampo l’oscurità della notte di pece che si bagna nel tremulo umidore della musica di Giuliano Di Giuseppe, che piange e invita al pianto di un’emozione inarrestabile, montando riottosa nel climax furioso dell’imperversare del fuoco nemico sul Carso. Nell’abisso naufragante di questo mare in orgasmo, Oliva si riprende infine il nodoso bastone d’avellano e indossa il suo lugubre pastrano d’ispido panno, e tutto ricomincia. Come sempre. Ancora una volta è tempo di migrare. Ma stavolta… è per sempre.
Nello Colombo