Ricordo appassionato di quel grande prete arrivato in bici a Cosio da Albonico...
La morte di don Paolo Trussoni mi ha colto di sorpresa. Sapevo che la sua salute ultimamente era cagionevole, ma avendolo incontrato e parlato pochi giorni or sono a Morbegno, non mi sembrava fosse giunto ormai alla fine della sua esperienza terrena. E’ vero che il passaggio dalla vita alla morte è imprevedibile quanto repentino, ed è altrettanto vero che la morte non sempre è preannunciata con eventi eclatanti. Infatti, il mio amico Paolo se n’è andato senza rumore, in silenzio, senza disturbare nessuno, com’era il suo modo di essere uomo e prete.
Don Paolo era un uomo schivo dalle manifestazioni e dagli eventi clamorosi. Era uno studioso di teologia e di antropologia, serio e impegnato nella costante voglia di capire fino in fondo i soggetti della sua ricerca prima di emetter qualsiasi giudizio di merito.
Don Paolo era un prete di cui mi è facile pensarlo da vivo, mentre mi è molto difficile saperlo morto. Ci sono persone con cui entri in sintonia da subito, senza sapere il perché, senza porti domande come: chi è costui, cosa vuole da me, perché mi cerca. Si, perché don Paolo è venuto a cercarmi, dopo aver letto il mio libro autobiografico, per conoscermi di persona. Per sapere chi ero. Si è mosso in bicicletta da quel piccolo paesino (Albonico) situato sulle propaggini del lago di Como nel comune di Sorico. L’aveva colpito, mi disse, che io parlassi con molta convinzione di don Lorenzo Milani, personaggio che anche lui ammirava e apprezzava molto. Ma anche di altri personaggi come Turoldo, Gandhi e altri ancora che facevano parte delle mie conoscenze e delle mie letture. Poi, mi disse anche, che voleva parlare con un sindacalista cattolico un pò fuori dal comune. Era interessato a conoscere le ragioni che avevano provocato la definitiva collaborazione tra le grandi Confederazioni sindacali (eravamo nella seconda metà degli anni ’80) e voleva notizie di prima mano. E io ero molto contento di fornirgliele. Ma ero anche divertito dal fatto che un prete, parroco di un insignificante paesino di montagna (Albonico), si interessasse di questioni fuori dalla sua portata (pensavo), almeno sul piano sociale. Sbagliavo giudizio.
Dopo quel primo approccio, i nostri rapporti si svilupparono e si intensificarono. Capii, frequentandolo, che quel prete era uno studioso (lui con me non si era mai svelato come tale), uno che sapeva e che voleva conoscere anche nei più nascosti particolari, la vita vera, civile, politica, e sociale, degli uomini prima di emettere giudizi.
La sorte volle che fui invitato dalla Pastorale del Lavoro Diocesana a partecipare come uno dei tre (il secondo era Don Paolo), rappresentanti della Diocesi di Como al Convegno Nazionale indetto dalla Pastorale Sociale e del Lavoro a Roma. Il titolo di quel convegno, che intrigava entrambi, era: “Chiesa e Lavoratori nel Cambiamento”. Correva l’anno 1987.
Durante il viaggio di andata e ritorno con il treno avemmo modo di parlare a lungo e di svelarci a vicenda, cosa che rafforzò la nostra amicizia. A Roma gli presentai un amico, ora Vescovo emerito di Acerra, Dom Antonio Riboldi. Quando Lo conobbi, (primi anni ’70) Riboldi era ancora parroco di Santa Ninfa, paese terremotato del Belice in Sicilia, dove la sua vita pastorale era prevalentemente improntata alla difesa dei diritti dei suoi parrocchiani terremotati dallo strapotere della mafia. Per qualche giorno, dentro il convegno formammo una specie di terzetto. Stavamo bene insieme, perché ciascuno aveva qualcosa di inedito da raccontare all’altro.
Ma soprattutto perché ci accomunavano le nostre idee circa la crisi che, in quei momenti, investiva la Chiesa a proposito dell’attenzione particolare ai poveri e agli emarginati del momento. Nel programma di quel convegno era prevista l’udienza con il Santo Padre Giovanni Paolo II°. Fummo ricevuti nella sala Clementina in Vaticano. Durante l’incontro, osservando il cerimoniale di insediamento del Papa nella sala, ebbi l’impressione (ancora oggi più convinta che mai) che quell’uomo piccolo e mite (Il Papa) fosse una sorta di prigioniero degli arcigni curiali che gli facevano coro attorno. Ne parlai coi miei due amici: da Dom Antonio ebbi come risposta un compiacente silenzio, da Don Paolo la condivisione del mio sentire.
Ancora oggi sono in relazione epistolare con Dom Antonio Riboldi, il quale puntualmente mi trasmette copia delle sue omelie domenicali. E anche don Paolo non ha più trascurato il rapporto amicale con Dom Antonio. Lo testimonia infatti un libro edito nel 2004, che don Paolo mi ha voluto dedicare in occasione del Santo Natale di quell’anno, dal titolo: “La Chiesa e i Poveri”. In quel libro, sono riportate testimonianze di Don Paolo Trussoni, di Mons. Antonio Riboldi, di Mons. Luigi Bettazzi e del teologo Padre Jesuita Peter Kolvenbach.
Potrei ancora dilungarmi a raccontare aneddoti sui momenti che abbiamo vissuto e passato assieme, ma preferisco tenerli per me. Io benedico Don Paolo e lo ringrazio per i suggerimenti, il conforto nei momenti difficili, la sincera amicizia che ha voluto concedermi. Lo ringrazio per l’esempio di mitezza, sobrietà, umiltà che mi ha dato e che ha dato a molti. Lo ringrazio di avermi permesso di custodire questo bel ricordo di lui e dei momenti di vera fratellanza vissuta con Lui.
Infine, ringrazio Dio di avermelo fatto incontrare sulla mia strada nel momento giusto, nel tempo giusto e nel posto giusto.
2 gennaio 2014