NOSTALGIE E SPIRITUALITA’

C’è qualcosa di antico nell’aria non solo cattolica: la nostalgia.

Il fatto che papa Benedetto XVI abbia ricordato che il messale romano del 1962 non è mai stato abolito e concesso che, chi lo desidera, può celebrare l’Eucaristia secondo quel rito, senza chiedere speciali permessi ed attendere concessioni dall’autorità diocesana (come invece aveva prescritto Paolo VI), ha dato la stura ad una serie di revivals che nel mondo cattolico si chiamano riscoperte di santi con relative tradizionali devozioni dimenticate, riti desueti riportati in auge e, nelle altre religioni, culti e liturgie cadute nel dimenticatoio.

E’ un bene?

E’ un male?

Nessuno dei due.

Il principio di fondo al quale il motu proprio papale si attiene è sempre lo stesso: la preghiera deve essere espressione di un atteggiamento di vita e della sensibilità dell’orante. Le modalità espressive dell’orazione stessa, dipendono dalle esigenze dei tempi. E’ evidente che, in un contesto ecclesiale (per riferirmi al mondo cattolico) in cui molte persone hanno vissuto traumaticamente il passaggio dalla messa in latino (che partiva dall’ “Introibo ad altare Dei” e terminava con “Cor Jesu Sacratissime, miserere nobis”), celebrata da un prete agghindato con pianeta e manipolo, alla messa in italiano (che parte spesso da un “volemose bene” e termina con l’invito a passare in piazza dove si fraternizzerà con salamelle e hot dog), dove il prete capelluto, barba lunga e sandali ai piedi, butta la stola sull’altare e scende scamiciato a distribuire pacche sulle spalle, la sensibilità pastorale liturgica di chi è preposto a guidare il popolo di Dio ha cercato di tenere conto delle esigenze degli uni e degli altri.

Ma se gli uni motivano la propria fede nell’ “Introibo ad altare Dei” e gli altri nel “volemose bene”, radicalizzando le posizioni…allora…allora…dobbiamo dire che c’è qualcosa che non va da tutte e due le parti.

Il messale di Paolo VI, a mio avviso, è un giusto equilibrio fra quel che era e quel che è, fra la sensibilità liturgica di un tempo e quella contemporanea.

I tradizionalisti che l’hanno bocciato e ci hanno fatto uno scisma, hanno commesso l’errore di legare la propria fede a quelle modalità espressive, come gli avanguardisti che ritengono che il messale di Paolo Vi non sia null’altro che una traccia da seguire per impostare una preghiera collettiva come si crede, compiono l’errore di personalizzare una preghiera liturgica che, non va dimenticato, non è loro.

Questo è il punto: la liturgia non è del prete o del vescovo. E’ della Chiesa. E per Chiesa, scritto con la C maiuscola, intendo il Popolo di Dio. Il quale Popolo si sente unito spiritualmente con tutti i fratelli del mondo, ad ogni latitudine e longitudine, meditando, con sensibilità diverse, sul medesimo brano della Parola e spezzando l’unico Pane.

La Sacrosantum Concilium” voleva arrivare proprio a questo: far sentire “ecclesìa” tutti i credenti nell’unico Dio di Cristo.

Ecco perché non mi convincono le nostalgie e le avanguardie.

Per mia forma mentis non mi sento molto vicino alle spiritualità dei “Sacri Cuori”, delle “Madonne Addolorate” o processioni folkloristiche che impetrano la grazia dal Santo Patrono; ma mi sento anche a disagio quando mi è accaduto di partecipare ad un’Eucaristia celebrata attorno ad un tavolo dove si mette in mezzo una michetta ed un fiasco di vino e si leggono passi di qualche “profeta” del nostro tempo.

Vi sono due modi di vivere la propria spiritualità, entrambi validi: riconoscersi Popolo di Dio unito nella preghiera comunitaria e rapportarsi personalmente con il Dio in cui si crede.

Revivals nostalgici e spinte in avanti sono retromarce e forzature.

Ernesto Miragoli

Ernesto Miragoli
Fatti dello Spirito