Massacra la moglie, assolto! Torna un quasi delitto d'onore?

Le donne devono ancora lottare veramente per acquisire gli stessi diritti degli uomini

(Maria de falco Marotta)  C’era la speranza che, a metà settimana, la celebrazione della Dichiarazione universale dei diritti umani – proclamata il 10 dicembre 1948 – portasse avanti quel dibattito che tenta di farsi strada nel groviglio stridente di cronaca ed emergenza. Veniamo ai fatti.
Un uomo che un anno fa aveva ucciso la moglie per poi vegliare per ore davanti al suo corpo, ha evitato l’ergastolo chiesto dal Pm. La Corte d’Assise di Brescia ha assolto l’imputato, riconoscendo che al momento dell’omicidio era incapace di intendere e di volere. La sentenza parla di un “delirio di gelosia”, in preda al quale l’uomo avrebbe stordito la moglie con dei colpi in testa per poi accoltellarla. In quel “delirio di gelosia” viene quasi riesumato “lo stato d’ira” contemplato nel delitto d’onore, che è stato abolito 40 anni fa e di cui si era già tornati a parlare a proposito di un altro omicidio di una donna per mano del suo compagno, nel 2018.
“Delirio”, dal latino de ossia allontanamento e lira ossia solco; vale a dire uscire dal solco, dal seminato, uscire dal campo della ragione. La specificazione è altrettanto importante. Da qui, la gelosia indica un eccesso di zelo che si carica di una perversa implicazione egoistica, per cui il fine della morbosità è in realtà ribadire il proprio diritto all’onore, è riscattare la propria autorità messa eventualmente in crisi; rinforzare che l’identità dell’altro, come la sua vita, dipende dalla propria e che mettere in crisi un vincolo simile equivale a commettere oltraggio.
Le definizioni sono essenziali, se il delirio di gelosia, come in questo caso, non è soltanto una diagnosi, ma il giudizio che permette di passare da un ergastolo a un’assoluzione. Riconoscere con queste parole la non imputabilità dell’omicida impedisce di usare per quanto accaduto il termine femminicidio, perché genererebbe una palese contraddizione.
Ma delegittimare il termine femminicidio significa, a sua volta, ignorare la prospettiva della vittima, svuotare la sua identità, violare i suoi diritti. È lecito a questo punto chiedersi su quale base il delirio di gelosia sia considerato attenuante piuttosto che aggravante.
Questa è soltanto l’ultima di una serie di verità processuali che giustificano i “fatti” con “stati emotivi”. È soltanto la discendenza di espressioni come “soverchiante tempesta emotiva”, “raptus di gelosia”, “amore malato”. Ancora una volta, una contraddizione in termini, che riduce un omicidio all’ incapacità di controllare un impulso giudicato incontenibile.
Se il femminicidio è “una forma di violenza esercitata su una donna in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico” (Oxford Languages), questa sentenza – come tante altre che l’hanno preceduta – non è solo giustizia non fatta nei confronti di una vittima o assoluzione di un uomo in particolare, ma è la mancata presa di coscienza di quell’intera aggiunta inutile ideologica che è la vera carnefice; è la banalizzazione di un fenomeno secolare, complesso, atroce, per il quale le parole sono importanti e, purtroppo, ancora sbagliate.
Questa sentenza giunge a poca distanza dalla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne e a poche settimane da quando Amnesty International ha chiesto l’immediata scarcerazione di Loujain al-Hathloul, Nassima al-Sada, Samar Badawi, Nouf Abdulaziz e Maya’a a-Zahrani , attraverso la voce di Lynn Maalouf, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord dell’organizzazione non governativa.
Amnesty International ha fatto notare ai leader del G20 tenutosi virtualmente in Arabia Saudita il 21 e 22 novembre che, mentre raccontano al mondo che l’emancipazione femminile è in cima alla loro agenda, le cinque attiviste che si sono battute per l’autonomia e i diritti delle donne sono ancora in carcere, in quanto accusate di insidiare la sicurezza e l’unità nazionale. Anche in questo caso la narrazione cerca di alterare la realtà.
Proprio le parole hanno condannato alla gogna mediatica il noto vocabolario Rocci di greco antico, che, lo scorso 7 dicembre, ha pubblicato sulla sua pagina social il significato della parola “γυναικονόμος” ossia “il magistrato che ad Atene e in altre città greche era ispettore o sorvegliante dei costumi e dell’abbigliamento delle donne”. In altre parole, le donne devono ancora lottare per acquisire veramente gli stessi diritti degli uomini e non pensare che le “donnette spogliate” che purtroppo imperversano in TV a centinaia , rappresentano davvero il sesso femminile.

Maria de falco Marotta
Giustizia