3 30 "GIORNI DI NEVE, GIORNI DI SOLE"

Non è ancora tempo di andare…

Desaparecidos. Siamo tutti desaparecidos in questa valle di lacrime. Siamo tutti figli di un dio minore, dimentico a volte dei propri figli, precipitati dall'alto in un gorgo senza fine. Senza pace e senza amore. Talvolta senza regole. Se non quelle del più forte in nome di un'assurda violenza paludata da nefasta dea di una truce giustizia malfida e assassina. E non ci sono lacrime per un padre che possano lenire il dolore per una figlia privata dalla violenza del figlio dell'uomo. Né giorni di neve, né di sole che risvegliano nuove sofferenze agonizzanti nel cuore di tenebra ancorato al ricordo.

Fabrizio e Nicola Valsecchi hanno rivissuto fino in fondo il dramma mai sopito d una terra martoriata da inquietudini incoscienti svuotate da avversi di vuoti di potere camuffati nell'ispido pelo da tenero manto d'agnello. Quasi protagonisti di una tragedia che si è consumata sotto gli occhi di muti spettatori senz'anima, fantocci inanimati mossi dai fili di un eterno burattinaio che in nome del libero arbitro ha lasciato la vindice mano abbattersi sul capo di innocenti e reietti.

"Giorni di neve, giorni di sole", il testo-testimonianza di Fabrizio e Nicola Valsecchi, diventa così un affresco insidioso e lancinante che spossa l'animo nel tormento di un caleidoscopio di cupe vertigini infinite, è l'imago mortis di un'epoca caduca, malsana, piagata e piegata al potere, è il diario di una vita intera spesa a inseguire un sogno mai sognato, per svegliarsi sul nudo assito di un palcoscenico sempre più patibolo delle intenzioni pure e più sacre soggiaciute al luciferino assedio di miscredenti e dissacranti teorie. Se non fosse per quella lucida, tenue certezza che in fondo al buio lascia ancora intravedere un lucore lontano. Patrizia vive nella sua immortalità di vergine dell'innocenza quotidiana, martire dell'ottusa acquiescenza di chi non ha osato ribellarsi per paura, di alzare il capo contro la protervia dell'arroganza e della barbarie di un potere cieco e assoluto. Vive nelle pagine di chi canta i suoi giorni e nella la sua uscita di scena sul postribolo di una vita cancellata come l'identità stessa di chi grida al mondo libertà e dignità calpestate.

Eppure verrà un giorno in cui le colombe si faranno beffe delle aquile altere, verrà l'ora in cui miseri e oppressi si faranno paladini dei loro carnefici con il loro intollerabile perdono che brucia. E quel che resterà non sarà soltanto il mesto ricordo di un padre defraudato di tutto, una vuota conchiglia in cui soffia forte la velata rimembranza di vestigia lontane sfocate in uno specchio franto nelle lacrime di ognuno dei suoi giorni passati, ma il segno, quella traccia sicura di un cammino tra i rovi e le spine che insidiano il passo. E insegna.

E' sempre duro il sentiero che conduce alla libertà dall'incubo dei propri sogni bui e tempestosi. Alfonso Mario Dell'Orto diventa così l'aedo errante di un'epica funebre dissacrata da chi ha steso un velo impietoso sulla nuda verità, diventa l'eroe silenzioso di una tragedia annunciata, di un dolore disumano che si consuma ai piedi del Golgota di una spianata di acque purulente che tutto cancella. Ma che non va dimenticato. Come la promessa di un domani migliore. Il riscatto del sole che torna e spazza via le nevi della iverna quiete.

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