LETTERA AL PRESIDENTE DELLA CAMERA DI COMMERCIO DI SONDRIO 12.5.20.22

Caro Presidente.

Una delle ragioni che mi danno titolo per scriverle la presente è quella di essere stato, in rappresentanza della CISL, membro della Giunta camerale per diversi anni nel decennio 1980. Un ricco decennio che ha visto la Camera di Commercio impegnata costantemente in importanti iniziative per la realizzazione di lungimiranti progetti a favore del sistema sociale ed economico provinciale (approvazione del marchio Valtellina, nascita del fondo di rotazione a favore delle imprese, nascita di confidi, accordo con l'ENEL per l'insediamento dell'ISMES in provincia, eccetera) . Purtroppo, in quel decennio siamo stati anche spettatori e vittime di immani disgrazie. Come non ricordare la tragedia dell'alluvione del 1987?

Tutto ciò fa parte della storia, quindi del passato, e Lei si chiederà il perché abbia voluto incominciare la mia lettera con questa premessa: perché voglio bene alla istituzione Camera di Commercio, anche se qualche mio ex collega ne ha voluto meno.

Mi spiego. Ho avuto il piacere di partecipare al convegno di venerdì 11 maggio u. s. "10° Giornata dell'Economia" e di ascoltare la Sua relazione. Quattro pagine ricche di spunti interessanti, di esortazioni rivolte al mondo imprenditoriale, istituzionale e politico, in larga misura da me condivise. Ciò che invece mi ha sorpreso è il ton

o eccessivamente militaresco (pensi che la parola "esercito" è citata nel testo per ben sette volte) del Suo discorso. Anche le citazioni riferite al presidente americano Roosevelt, che Lei ha invocato per spiegare la crisi nella quale siamo immersi e il percorso che dovremmo seguire per uscirne, pecca un poco di superficialità storica e di semplicistica comparazione tra la crisi del '29 e quella attuale.

Infatti, per dirla con gli studiosi (economisti, sociologi, filosofi, eccetera) di fama nazionale e internazionale, l'attuale crisi, diversamente da quella del '29, è una crisi che, oltre ad essere economica e globale, è morale, antropologica e sociale. E' una crisi di sistema che non è risolvibile con il vecchio armamentario di sollecitazioni tese ad invocare strumenti per un nuovo sviluppo, nuova crescita, rilancio dei consumi, eccetera.

L'attuale è una crisi che, a fasi alterne, si trascina da circa quarant'anni (a seguito della disgraziata decisione del presidente americano Nixon che nel lontano 1971 decise di smantellare il sistema di Bretton Woods, liberalizzando i cambi e lasciando libero corso alla circolazione dei capitali) e che, triste dirlo, ha raggiunto la fine del suo percorso con lo sconvolgimento finanziario del 2007.

Il drammatico risultato della sciagurata decisione di Nixon è stato quello di indebolire le capacità di controllo della politica sui mercati finanziari; tant'é che si può a ragione dire che il potere dei governi degli stati è messo in subordine a quello finanziario.

In aggiunta a tutto quanto sopra, questa crisi mette ogni giorno di più in evidenza la preoccupante decadenza del concetto di relazione. A cominciare dai partiti politici, alle istituzioni, alle strutture pubbliche, ai rapporti tra imprese, a quelli interpersonali, è venuta meno la capacità e la voglia di dialogare, di confrontarsi sulle idee dell'altro, di realizzare accordi di percorso finalizzati al raggiungimento di obiettivi per il bene comune.

Si può ben dire che è stato interpretato in maniera deteriore e strumentale, un concetto di per se valido come la libera concorrenza o competizione, che dir si voglia.

Una situazione, questa, che è globale e a ogni livello di responsabilità.

A mio modesto parere, il recupero del deterioramento dei rapporti tra le persone, ad ogni livello, è la chiave di volta che può aprire spiragli attendibili per la fuori uscita da questa crisi senza doversi misurare con aspri e magari letali conflitti. Sono convinto, infatti, che ogni cittadino di buon senso e viepiù chi ha responsabilità istituzionali pubbliche o private, deve farsi carico di questo problema e agire senza indugio alcuno.

Mi pare di aver capito che la Sua sollecitazione verso le imprese vada in questa direzione e va benissimo. Però alla Sua verve tesa a richiamare e sollecitare i suoi colleghi imprenditori, è mancato il riferimento ad un fattore, per me importantissimo e fondamentale ai fini del discorso che sto facendo, ossia quello dei lavoratori dipendenti.

Fino ad un certo punto capisco il Suo punto di vista in direzione delle imprese, quindi degli imprenditori. Faccio fatica a comprendere le ragioni per cui abbia tralasciato in tutto il suo ragionamento, di riservare spazio al rapporto con i collaboratori, lavoratori-dipendenti.

I sussurri che ho sentito attorno a me in sala e anche fuori, da parte soprattutto dei ragazzi invitati al convegno, ai quali Lei si è rivolto chiedendo loro buone idee ed entusiasmo, hanno confermato questa mia sensibilità al problema. Per me non è cosa da poco conto.

Fintanto che l'impresa è considerata oggetto di particolare attenzione da parte dell'imprenditore, solo ai fini del restare sul mercato, di realizzare profitto, di fare rete con altre imprese, di ricevere aiuti dalle istituzioni, finanziamenti dalle banche, benevolenza da parte della politica e, in forma più o meno paternalistica, elargire qualche benefit ai collaboratori (quando, purtroppo, non di rado sfruttarli), non siamo in linea con un moderno e democratico modo di uscire dalla crisi.

Da tempo sostengo che l'impresa, di modeste dimensioni e non solo, in zone marginali come la nostra e non solo, deve essere considerata una comunità di persone che agiscono e lavorano per uno scopo comune: mantenere viva e produttiva la fonte principale del proprio reddito; mantenere vivo e operante il luogo dove si può esprimere la propria creatività e coltivare la propria intelligenza; mantenere operante e vivo il luogo dove ciascuno e tutti assieme completano e tutelano con il lavoro la propria dignità di persone. Tocca all'imprenditore, in questo caso, favorire il clima giusto.

Quello da me suggerito è un invito alla responsabilizzazione di tutta la comunità di persone che costituisce l'impresa. E' un modo, forse nuovo, per incominciare a cambiare veramente. L'impresa, come afferma un noto economista come il prof. Stefano Zamagni, deve essere un luogo dove si esprime la felicità di mettere in gioco le proprie idee, di esercitare il proprio ruolo con l'intenzione di portare beneficio a tutti, di operare per il bene comune.

Lei, caro Presidente, di tutto questo non ha fatto cenno. Forse era scritto fra le righe e io non l'ho capito (di ciò chiedo venia). Avrei preferito che, oltre che riconoscersi come imprenditore, in quanto presidente di una istituzione pubblica avesse spaziato su questi temi, approfondendo ragionamenti che pur con fatica stanno emergendo, qua e la.

Chiedo scusa se l'ho importunata con la presente, ma come le ho anticipato, alla Camera di Commercio voglio bene e mi sarebbe davvero piaciuto sentire una nota un poco sopra le righe, soprattutto in questo momento di "tristezza diffusa".

Se lo desidera sono a Sua disposizione per gli approfondimenti del caso.

La saluto molto cordialmente e le auguro un lungo e proficuo percorso nella sua carriera.

Cosio Valtellino 14 maggio 2012

Valerio Dalle Grave

Valerio Dalle Grave
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