Vaiont, 50 anni fa. Mediterraneo, oggi

Quella sera di  mercoledì 9 ottobre 1963 verso le  17,30 uscivo dai cancelli della fabbrica “Brevetti Van Berkel “ di Prata Camportaccio  e, assieme a un gruppetto di colleghi, mi avviavo come tutte le sere  verso la stazione ferroviaria di Chiavenna a prendere il treno per tornare a casa.
Dopo pochi passi venni investito da una motoretta che mi causò un forte trauma alle gambe. Subito venni soccorso  dai miei compagni e portato al pronto soccorso, del locale ospedale. Dopo un primo esame, visti gli esiti  del trauma, i medici decisero per il mio ricovero. Alla mattina dopo, di buon’ora, ebbi la piacevole sorpresa di essere svegliato da una bella signora, la quale con un timido sorriso mi chiese se io ero proprio nativo di Santa Giustina in provincia di Belluno. Gli risposi affermativamente, ma gli chiesi chi era e perché mi faceva quella domanda.  Si qualificò come segretaria dell’ufficio di direzione sanitaria dell’ospedale  e mi disse che avendo letto le mie credenziali aveva pensato bene di avvisarmi di ciò che nella notte era appena successo da quelle parti: la tragedia del Vajont.
Mi offrì la possibilità di telefonare ai miei parenti bellunesi per avere loro notizie, e mi confidò che pure lei era bellunese e che grazie a Dio i suoi parenti abitavano lontano dal luogo della catastrofe.
Seppi in seguito che un paio di miei cugini erano impegnati a raccogliere cadaveri nel greto del fiume Piave e che ne trovarono parecchi a diversi kilometri da Longarone. Il resto è cronaca conosciuta da tutti.
Forse però non tutti sanno o immaginano lo stato d’animo di chi come me, che conoscendo  il paese di Longarone com’era prima del disastro, quando dopo qualche anno è tornato  a visitare quei luoghi, al posto del ridente paese di fondo valle, si è trovato di fronte un grande spiazzo di detriti, allietati dal rumore di un rigagnolo di fiume che placido scorreva senza tempo.
La stessa angoscia mista a rabbia  provai ( e immagino provassero i superstiti scampati alla catastrofe) quando andai a visitare il cimitero ad immagine e somiglianza di un cimitero di guerra come ce ne sono in giro per l’Italia. Un’immagine simmetrica di lapidi bianche impersonali, racchiuse  in un recinto murario: su alcune lapidi era scritto il nome, su altre un numero. Circa duemila lapidi: una visione triste e desolante.
Oggi, a 50 anni da quegli eventi, pensando a quella tragedia causata solo ed esclusivamente dalla arroganza e dalla irresponsabilità umana viene da chiedersi perché?  Perché è potuto succedere?
Oggi guardando il piazzale  del porto di Lampedusa,  dove si vedono oltre 350 bare allineate, molte delle quali con dentro il cadavere di uno sconosciuto, ma senz’altro di una persona come noi, che ha avuto il solo torto di fuggire impotente dal  tiranno del suo paese, che lo voleva morto ammazzato, o per fame o per miseria. Una persona che, sperando in un approdo più sicuro, foriero di rinascita, di libertà e di vita, ha trovato invece la morte.  Un epilogo non sperato, non voluto, non cercato, ma imposto!
I volontari che per giorni interi e senza sosta hanno scavato tra le macerie di Longarone e lungo il fiume raccontano di avere trovato una mamma partoriente legata ancora al suo bambino con il cordone ombelicale, e un’altra abbracciata a due culle con dentro due corpicini nel tentativo di proteggerli dalla furia delle acque. Due figure emblematiche, analoghe a quelle  raccontate dal Corriere della Sera di qualche giorno fa, trovate nel barcone affondato nelle acque di Lampedusa nei giorni scorsi. Quale tragica coincidenza! E anche in questo caso per colpa della protervia e irresponsabilità umana.  Riflettiamo sul nostro  senso di responsabilità. Riflettiamoci bene!  Non è sufficiente commuoversi guardando certe scene in TV.   E’ necessario mobilitarsi con appelli, con prese di posizione verso i nostri politici perché in inizino una vera politica di pace.
Quella povera gente scappa da Paesi ai quali il nostro fornisce armi per i signori della guerra.  Questo succede con i signori della Siria, con quelli  della Somalia, dell’Eritrea e con altri ancora.
Noi ci apprestiamo a celebrare il Santo Natale. Per noi è un giorno di pace, ma per loro?

 

Valerio Dalle Grave
Società