Mario Segni intervista in esclusiva Beppe Severgnini
 Conobbi Severgnini nel 1992, in Sardegna. Eravamo in campagna 
 elettorale, l'ultima col proporzionale, e la prima ed unica con 
 la preferenza unica. Montanelli, che tifava per i referendari, 
 l'aveva inviato per qualche giorno a seguire la mia campagna 
 elettorale. Passammo assieme una lunga domenica, conclusa in 
 modo sconcertante a Donori, un paesino a una trentina di 
 chilometri da Cagliari, dove a mezzanotte una trentina di 
 simpatizzanti, dopo avermi tenuto a colloquio per tre ore, mi 
 comunicarono che mi volevano tanto bene ma la domenica non 
 sarebbero andati a votare per protesta contro la discarica 
 comunale. Severgnini rideva come un matto, io li avrei strozzati 
 con le mie mani. Bei ricordi, comunque. Da allora l'ho visto 
 poche volte, ma ho sempre seguito con ammirazione il suo lavoro 
 da giornalista. Lo trovo bravissimo. Mi illudo, forse, che anche 
 lui abbia una qualche simpatia per me, e che comunque condivida 
 molte delle nostre idee. Per questo, all'uscita del Patto, mi è 
 venuto spontaneo chiedergli un articolo. La risposta era 
 prevedibile: non posso, ho l'esclusiva col Corriere. Ho 
 ripiegato sulla intervista, è d'accordo. E allora una idea 
 divertente: la faccio io, un politico intervista un giornalista, 
 in piccolo un uomo che morde un cane. Dunque, eccoci alla mia 
 prima, e probabilmente ultima, esperienza da intervistatore.
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 Eccomi, come va?
 Bene. Sono pronto.
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 Allora le rubo il mestiere.
 Io invece non glielo rubo, stia tranquillo, il politico non lo 
 farò mai.
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 Non si sa mai, la vita è lunga. Ma proprio perché le rubo il 
 mestiere, inizio con una domanda che attiene al suo lavoro. E' 
 vero che in Italia c'è una informazione drogata?
 No, drogata non è la parola giusta, perché è un aggettivo che 
 suscita allarme e spiega poco. Abbiamo molti problemi, ma non 
 userei questo termine.
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 Bene, allora le faccio la domanda in un altro modo. Lei conosce 
 molto bene l'Europa. Che differenza trova tra la nostra 
 informazione e quella degli altri Paesi europei?
 La differenza è nella informazione televisiva, dove esiste un 
 problema grande come il Monte Bianco. Chi sostiene che non 
 esiste è in mala fede. Come ne usciremo, visto il pasticcio in 
 cui siamo andati a cacciarci, non lo so. E il problema, che non 
 esiste da nessuna altra parte del mondo tranne forse in 
 Thailandia, è che il Presidente del Consiglio è proprietario di 
 quasi tutte le televisioni private e può controllare la 
 televisione pubblica. Questo non significa che poi la controlli 
 tutta davvero, ma un Paese che in un campo delicato come questo 
 si affida al buon cuore dell'uomo più potente, è già nei guai. 
 Questo è gravissimo, e sono molto preoccupato. Credo che la 
 prossima campagna elettorale, come ho detto l'altro giorno in 
 una intervista radiofonica, sarà un grandissimo casino. Si può 
 dire "casino" in una intervista?
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 Lei ha detto non entriamo nel come risolvere il problema. Ma 
 qualche domanda la faccio lo stesso. Limitiamoci alla RAI, che 
 comunque è metà della informazione televisiva. E' possibile 
 cambiare qualcosa dal di dentro? Paolo Mieli ha fatto bene a 
 rifiutare? Lucia Annunziata ha fatto bene ad accettare, e poi a 
 litigare tutti i giorni col direttore senza ottenere molto per 
 la verità?
 Paolo Mieli ha fatto bene a rifiutare. Non ho parlato con lui 
 della cosa, ma sono certo che ha pensato che, dopo i guai 
 combinati per tanti anni, un Presidente, per quanto deciso e 
 autorevole, non potesse fare niente. Lucia ha fatto la scelta 
 opposta, comune alla sinistra, che è meglio giocare anche se si 
 sa di perdere che non giocare affatto. Fossi stato al posto di 
 Lucia, che è una amica da anni, non avrei accettato. Credo che 
 il sistema sia da tempo seriamente compromesso. 
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 Rispetto ai periodi passati cosa vede, un peggioramento? In Rai 
 possiamo distinguere tre periodi: quello democristiano, quello 
 della sinistra, e l'attuale. La curva è in discesa?
 Non vedo un peggioramento. In RAI ci sono sempre colleghi 
 bravissimi che soffrono, non lo dico per demagogia. La novità 
 sta nel fatto che il Presidente del Consiglio, che ha sempre 
 considerato la RAI come sua zona di influenza, oggi è anche 
 proprietario delle televisioni private. Questa è la novità 
 gigantesca. E la cosa grave è che la politica italiana, dalla 
 destra alla sinistra, scambi ormai la patologia per la 
 fisiologia. La mia delusione per la sinistra è che non ho 
 sentito dire se vinciamo noi cambiamo tutto; sembrano dire 
 piuttosto se vinciamo noi ci accomodiamo, verrà il nostro turno. 
 La mia sensazione è che, poiché la televisione tocca il midollo 
 spinale della democrazia, cioè la formazione del consenso, il 
 prossimo turno potrebbe non venire, oppure arrivare dopo 
 moltissimo tempo.
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 Lei pensa che dall'Europa possa venire un aiuto determinante? In 
 altri campi, come il rigore in economia, l'Europa ha avuto una 
 influenza decisiva. Glielo dico perché come parlamentare europeo 
 ho fatto fuoco e fiamme, e ho ottenuto che per tre volte il 
 Parlamento europeo approvasse una risoluzione che pone il 
 pluralismo nell'informazione come principio fondamentale e 
 indica l'Italia come un macroscopico caso di deviazione. Chi ha 
 fatto orecchie da mercante purtroppo è stata la Commissione 
 presieduta da Romano Prodi, che avrebbe dovuto fare la 
 direttiva. Ma comunque Lei pensa che questo possa esserci 
 d'aiuto?
 No, mi dispiace dirlo ma penso di no. Perché le persone che in 
 Italia sono sensibili al richiamo europeo sono già convinte 
 della gravità del problema. E di persone come queste ce ne sono 
 tante anche nel centro destra. Ma molti fanno finta di non 
 vedere. Del resto il messaggio europeo dovrebbe arrivare in 
 Italia attraverso le televisioni, controllate dalle persone che 
 non vogliono cambiare nulla. Bisognerebbe che l'Europa dettasse 
 in questo campo delle norme cogenti, come avviene per la 
 concorrenza.
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 C'è una possibilità che questo avvenga. Se verrà approvata la 
 Costituzione europea, e in essa la Carta dei Diritti, le norme 
 che prescrivono il pluralismo sarebbero vigenti, e quindi la 
 Corte di Giustizia potrebbe intervenire in modo vincolante anche 
 in Italia.
 Sì, sarebbe efficace, ma si andrà a tempi lunghi, mentre noi ci 
 avviamo ad una campagna elettorale che finirà nel 2006. E da qui 
 al 2006 ci litigheremo su queste cose, mentre avremmo bisogno di 
 parlare dei problemi veri. E' come discutere per anni su come 
 devono essere fatti i binari, mentre ci sarebbe bisogno che su 
 questi binari il treno camminasse veloce.
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 Alla luce di tutto questo, lei pensa che in Italia possa nascere 
 un partito liberaldemocratico di massa, cioè una formazione che 
 faccia del rispetto della legge, del senso dello Stato, della 
 moralità delle regole il punto centrale della sua costruzione? 
 Questo del resto è il motivo per cui è nato il Patto.
 Caro Segni, noi ci conosciamo da dodici anni, da quella campagna 
 elettorale in Sardegna in cui la seguii su mandato di Montanelli. 
 E Montanelli risponderebbe: no, mi piacerebbe molto, ma non 
 voglio scambiare i sogni con la realtà. Non credo che in Italia 
 un partito Liberaldemocratico di massa sia possibile. Ma c'è una 
 cosa su cui concordo più con lei, Segni, che Montanelli. Lui 
 pensava che gli italiani fossero irrecuperabili. Io invece 
 guardando attentamente il mio Paese, che amo molto anche se mi 
 fa arrabbiare tutti i giorni, ho scoperto che qualche volta gli 
 italiani imparano. In certe occasioni, dalla legge sui sindaci 
 alla patente a punti, gli italiani si sono comportati da 
 europei. E quindi dobbiamo capire che cosa deve scattare nella 
 mente degli italiani perché capiscano che le riforme 
 liberaldemocratiche sono nel loro interesse? Non credo che siamo 
 irrecuperabili.
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 E' una bellissima risposta e la ringrazio. Noi comunque 
 scontiamo tempi lunghi. Del resto guardando al passato vi è un 
 caso in cui un partito piccolo riuscì contro tutti a fare grandi 
 cose, e è il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa.
 Vero, non ho nessun imbarazzo a dirlo, è il partito che votavo a 
 diciotto anni. Però era un piccolo partito, mentre oggi occorre 
 un partito di massa, proprio per il maggioritario, che io 
 considero una conquista, che Lei ha introdotto. Però vedo due 
 difficoltà per lei e per il Patto. Il primo è che voi vendete 
 ragionamenti, mentre il Presidente del Consiglio vende slogan, e 
 gli italiani comprano più volentieri slogan che ragionamenti.
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 E' vero, ma le racconto un episodio che ho sentito da Andreotti. 
 Nel '46 alle prime elezioni dopo il fascismo, De Gasperi fece un 
 discorso ai giovani democristiani di cui Andreotti era 
 presidente. Vi do un consiglio: in campagna elettorale 
 promettete un po' meno di quello che pensate di riuscire a 
 realizzare. State attenti che la politica è come il mercato. Se 
 volete andare solo una volta, potete anche vendere il pesce 
 marcio. Ma se pensate di tornare, state attenti che le volte 
 successive il pesce ve lo tireranno dietro. Non pensa che in 
 Italia cominci nascere la voglia di tirare le pietre a chi 
 promette troppo?
 Ma cosa succede se migliaia di manifesti, radio, televisioni, 
 sostengono che il pesce non è marcio ma è buonissimo? E' più 
 difficile che la gente si arrabbi.
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 E' vero, ma ormai sono tanti gli italiani che vedono che le 
 tasse non sono diminuite….
 Certo, ma non dimentichi che il giorno in cui lei fosse un 
 concorrente pericoloso, il Presidente del Consiglio avrebbe la 
 possibilità di farla scomparire, televisivamente intendo. Mi 
 auguro che tutti i quotidiani vi diano lo spazio che meritate.
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 Le do un dato che conferma le sue preoccupazioni. Dal giorno in 
 cui siamo nati, il 21 giugno, le reti Mediaset e il giornale non 
 ci hanno concesso un momento o una riga (con qualche singolare 
 eccezione di Emilio Fede). E dire che su alcuni temi, come la 
 giustizia civile o la legge Gasparri, abbiamo fatto grosse 
 battaglie.
 Mi mandi questi dati, mi interessano molto. Devo intervistare 
 Gasparri, su Sky, gli farò una domanda su questo.
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 Un'ultima domanda, poi non la disturbo più. Noi siamo due 
 montanelliani. Siamo rimasti molto pochi, in Italia, o la 
 schiera è nutrita?
 No, siamo in molti, ma viene vissuta in modo diverso. C'è chi la 
 sua origine l'ha trasferita nella attività giornalistica, chi la 
 vive nel mondo politico, chi l'ha trasformata in rabbia e 
 furore: penso per esempio a Marco Travaglio, che viene dal 
 Giornale. E c'è poi chi la ha dimenticata. Il centro destra è 
 pieno di uomini che sono cresciuti alla scuola di Montanelli. Mi 
 ricordo che a volte mi diceva, se vai avanti così sarai l'unico 
 dei miei ragazzi che non diventerà almeno sottosegretario. Gli 
 ho risposto: per fortuna. 
Mario Segni
GdS 20 III 2004 - 
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