IL DOCUMENTO PRESENTATO AL PARLAMENTO DA CONFARTIGIANATO
I provvedimenti di legge adottati a partire dal luglio 2006 e la successiva finanziaria per il 2007 hanno delineato un quadro generale di politica fiscale che si riflette in modo pesante nei confronti delle PMI. In sintesi, esso è riconducibile a:
• un incremento del livello di tassazione, realizzato attraverso basi imponibili allargate;
• nuovi e pesanti adempimenti, non calibrati sulla specificità dei contribuenti, ma adottati nel presupposto generale della lotta all’evasione;
• l’applicazione retroattiva delle disposizioni, causa di assoluta incertezza nella pianificazione aziendale dei costi.
La circostanza, infine, più emblematica che ha incrinato il rapporto di fiducia e trasparenza instauratosi con gli studi di settore, è rappresentata dall’introduzione degli indicatori di normalità economica.
Gli indicatori di normalità economica non rispettano lo spirito del protocollo d’intesa.
Durante l’iter parlamentare della legge finanziaria per il 2007, si è svolto un confronto, non facile, tra le nostre Organizzazioni, il Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze ed il Ministro dello Sviluppo Economico che ha portato – nel dicembre 2006 – al rinnovo del Protocollo d’intesa sulla “Razionalizzazione del sistema tributario nell’ottica di evoluzione degli studi di settore, semplificazione degli adempimenti dei contribuenti e misure tese a sostenere la crescita economica e lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese”.
Le ragioni che hanno portato alla firma della parte del Protocollo relativa agli studi di settore risiedono, principalmente, nei seguenti, importanti principi:
• la volontà di riequilibrare il prelievo fiscale, attraverso una progressiva riduzione dello stesso in misura proporzionale alla emersione di base imponibile;
• l’esigenza di migliorare la capacità d’intervento selettivo degli studi di settore e di non modificarne la natura, trasformandoli in uno strumento automatico di accertamento con azione indiscriminata;
• l’impegno a rafforzare in modo mirato l’attività di controllo e repressione nei confronti degli evasori totali, soprattutto nell’ipotesi in cui l’evasione riguardi ricavi o compensi derivanti da un’attività lavorativa secondaria rispetto a quella principale svolta dal contribuente;
• la valorizzazione dello Statuto del Contribuente, con particolare riguardo all’efficacia temporale delle norme tributarie.
Detti principi, però, non sono rintracciabili nell’operazione di individuazione degli indicatori di normalità economica, da applicare per il 2006.
Al riguardo, è bene sottolineare, infatti, che questi indicatori:
• sono stati determinati, unilateralmente, dall’Amministrazione finanziaria;
• non sono stati sottoposti al vaglio delle Associazioni di categoria;
• non hanno lo stesso livello di approfondimento ed elaborazione degli studi di settore; basti pensare che gli indicatori fanno riferimento ai 200 studi e non ai 2000 modelli d’impresa individuati dagli studi stessi;
• retroagiscono all’anno d’imposta 2006, in deroga allo Statuto del Contribuente.
L’inosservanza dello spirito del Protocollo ha fatto sì che tali indicatori, stabiliti frettolosamente e con grande approssimazione, non riescano a cogliere l’estrema varietà delle tipologie d’impresa a cui si applicano e non raggiungano quindi l'obiettivo per cui sono stati creati, vale a dire individuare, in modo trasparente, i soggetti che hanno alterato la loro realtà aziendale.
A seguito delle numerose rimostranze avanzate dalle Organizzazioni, è ora evidente la presa d’atto da parte dell'Amministrazione Finanziaria che l’operazione “indicatori di normalità economica”, come costruita per il 2006, al di fuori del contesto metodologico degli studi, mostra evidenti segni di criticità per essere stata innestata in modo innaturale e intempestivo, e senza un adeguato confronto con le categorie.
Prova di tutto ciò sono, infatti, le recenti istruzioni impartite dall’Agenzia delle Entrate, che richiamano ad una estrema prudenza nell’applicazione degli indicatori nei confronti di quei contribuenti che presentano condizioni di marginalità nella conduzione dell’impresa, o e che riservano ai contribuenti stessi la possibilità di motivare, già in sede di dichiarazione, le ragioni del loro scostamento dai livelli di congruità stimata dagli studi.
Analizzando il dato sintetico della non congruità, relativa a tutti i soggetti a cui si applicano gli studi di settore, passata – di colpo – dal 30% al 50%-60%, ci si rende conto che questa produce maggiori pretese, nei confronti delle singole imprese, quantificabili mediamente, in termini di ricavi, nell’ordine di € 25.000 e in termini d’imposte varie (IVA, IRES, IRPEF, IRAP, addizionali, contributi, ecc.) in circa € 15.000 di imposte a saldo, oltre agli acconti.
Si tratta di una pretesa fuori misura rispetto alle condizioni di un’economia costantemente in bilico tra consumi stagnanti, aumento di oneri impropri per adempimenti crescenti e turn over di attività sempre più veloce.
Questa impostazione e questi risultati non possono che essere respinti: non sono conformi allo spirito del protocollo e compromettono quanto faticosamente si è costruito con gli studi di settore.
La nostra proposta è semplice, ma efficace: si sospenda l’applicazione di questi indicatori ai fini dell’accertamento e si vada rapidamente alla revisione degli studi attraverso un serrato confronto con le Associazioni di categoria.
E’ necessario, inoltre, che nella costruzione dei nuovi studi di settore si proceda ad una attenta analisi della tipologia degli indicatori da adottare, affinché siano di ostacolo a coloro che, dolosamente, comunicano dati non veritieri, pur di risultare congrui, ma non rechino danno alle imprese che abbiano un corretto comportamento fiscale.
La costruzione, in sede di revisione, di più affinati e condivisi indicatori con le Associazioni di Categoria potrà servire, inoltre, a ristabilire la compliance, elemento indispensabile per il raggiungimento delle finalità sottese al progetto studi di settore.
A tutto questo deve, comunque, fare da sfondo un forte ed evidente impegno volto a migliorare il contraddittorio affinché sia data maggiore garanzia al fatto che le osservazioni presentate dal contribuente siano ascoltate dall’Agenzia delle Entrate: solo un contraddittorio che funzioni può evitare la catastizzazione dei ricavi rendendo flessibile ed aderente alle concrete realtà imprenditoriali lo studio di settore. Se anche una piccola percentuale di contribuenti corretti venisse toccata da richieste infondate, sarebbe gravissimo.
Si ritiene, pertanto, prioritario iniziare l’attività di formazione congiunta prevista proprio nel protocollo sottoscritto il 14 dicembre 2006, ma non basta. Si è dell’avviso, infatti, che sia necessario trovare anche delle soluzioni organizzative che rendano più vincolante per gli Uffici dell’Agenzia delle entrate riportare nell’atto di adesione ovvero nell’avviso di accertamento, le motivazioni alla mancata congruità dei ricavi indicate dall’imprenditore in sede di contraddittorio e le risposte ottenute dai funzionari degli uffici periferici dell’amministrazione finanziaria.
Si vuole, inoltre, richiamare l’importanza di salvaguardare la natura degli studi di settore, frutto di un accordo di reciproca collaborazione tra l’Amministrazione finanziaria e le Associazioni di categoria, con i quali è stato possibile superare precedenti strumenti, meno raffinati, di accertamento induttivo; non deve però dimenticarsi che lo studio è pur sempre uno strumento “di massa”, non in grado di rappresentare in maniera compiuta l’attività economica di ogni singolo contribuente.
Una corretta analisi della funzionalità di tale strumento, anche ai fini della sua revisione, ha, inoltre, come presupposto, la condivisione dei dati: si è invece assistito, negli ultimi giorni, alla diffusione, da parte del Ministero, di dati parziali che fanno riferimento, peraltro, ai redditi dichiarati mentre lo studio stima i ricavi.
Si ribadisce: i dati riguardanti gli studi di settore devono essere patrimonio comune anche delle Associazioni.
Da ultimo, due osservazioni che possono concorrere a migliorare l’impiego degli studi di settore:
• se dall’analisi dei dati emerge il comportamento non corretto di una minoranza di soggetti, come pare evidenziarsi dai dati diffusi da SOSE, ciò deve essere di sprone ad un’azione di controllo, mirata e selettiva, e non può costituire il pretesto per interventi che si ripercuotono negativamente sulla maggioranza dei contribuenti;
• se non verrà modificata la tempistica di approvazione degli studi e della lora entrata in vigore, non si realizzerà mai compiutamente quel nuovo rapporto fisco-contribuente che induca ad adeguamenti spontanei in corso di anno.