La riforma costituzionale e l'elezione diretta del Premier
 Per certi aspetti dovrei essere contento. La riforma 
 costituzionale approvata oggi dal Senato, e che a questo punto 
 ha forti probabilità di andare in porto, contiene l’elezione 
 diretta del Primo ministro.
 E’ una nostra idea, lanciammo la 
 campagna per il “sindaco d’Italia”, e buona parte del movimento 
 referendario ci seguì.
 E invece contento non lo sono affatto, 
 perché ogni grande riforma deve essere calata in quadro 
 costituzionale armonico, altrimenti diventa una casa di cui si 
 fa solo un muro. E sta avvenendo proprio questo, giacché un 
 Primo ministro eletto direttamente, che logicamente è molto più 
 forte, richiede una rete di garanzie in grado di esercitare un 
 controllo, richiede insomma una serie di contropoteri. Non è 
 stato fatto nulla di tutto questo, anzi si è fatto esattamente 
 il contrario. La Corte Costituzionale sarà più politicizzata, 
 perché i membri nominati dagli organi politici passano da cinque 
 a sette (ai cinque del Parlamento si aggiungono i due nominati 
 dalle Regioni). Al Presidente della Repubblica vengono tolti 
 molti poteri e non viene aggiunto nulla. Ma sopratutto la 
 riforma giunge in un Paese che è già estremamente squilibrato su 
 un settore fondamentale, su cui si dovrebbero anzi avere le 
 massime garanzie: quello dell’informazione. Ancora più che negli 
 organi costituzionali le garanzie di rispetto vero e non formale 
 della democrazia vanno poste su questo terreno. Ebbene proprio 
 qui l’Italia conosce la situazione peggiore, con il ben noto 
 fenomeno della concentrazione dei poteri televisivi nelle mani 
 del Presidente del Consiglio. Lo dico a chiare lettere. Se c’è 
 una legge in contrasto con la riforma , è la Gasparri, che 
 invece di garantire il pluralismo dell’informazione ha favorito 
 le concentrazioni.
 C’è poi l’altro aspetto, quello della devolution, sul quale ho 
 già detto molto. E’ una riforma pericolosa e antistorica. 
 Pericolosa perché scava fossati tra una parte e l’altra 
 dell’Italia, con il rischio che diventino un giorno 
 incolmabili. E’ antistorica, anzi diciamo pure vecchia, perché 
 le esigenze di oggi richiedono più poteri allo stato nazionale. 
 I grandi problemi del 2000 sono infatti di portata tale da 
 essere affrontabili solo su scala nazionale, o più spesso 
 addirittura su scala europea. Parlo di immigrazione, di ricerca 
 scientifica e università, di politica estera e militare. Si 
 danno invece nuove competenze alle Regioni, si aumenta 
 probabilmente il contenzioso già forte, insomma si va in senso 
 opposto. E soprattutto lo si fa con uno spirito che è l’esatto 
 opposto dell’idea nazionale, con l’odio antistatale che ha 
 caratterizzato in questi anni tutta la politica della Lega. 
 Insomma l’Italia esce indebolita e non rafforzata da questa 
 riforma.
 Su quest’ultimo punto le responsabilità sono molte e non tutta 
 la colpa è della Lega e della maggioranza. Perché l’Ulivo ha la 
 colpa di avere iniziato lo sfascio dell’amministrazione con la 
 scellerata riforma del titolo V fatta alla fine della scorsa 
 legislatura, che ha squilibrato la amministrazione pubblica e ha 
 creato il precedente politico di una riforma costituzionale 
 fatta unilateralmente a stretta maggioranza, senza ampi 
 consensi.
 E’ questa la ragione per cui l’opposizione è stata 
 fatta in sordina, a volte in modo imbarazzato, e senza prendere 
 di petto i problemi. Per farla sul serio l’Ulivo avrebbe dovuto 
 dire di avere fatto un grave errore, ammettere lo sbaglio, dire 
 apertamente agli italiani che è una pazzia attribuire tante 
 competenze alle Regioni, e che questo non avviene nemmeno nei 
 veri e propri Stati federali (vedi l’ottimo articolo di Pirani 
 su Repubblica del 23 marzo). Con una linea di questo genere 
 avrebbe messo in imbarazzo il centro destra, dentro il quale 
 molti la pensano come Fisichella.
 Non avendo il coraggio di 
 farlo, l’opposizione ha dovuto tacere sul contenuto di molte 
 follie, ha spesso tenuto un silenzio imbarazzato. La conclusione 
 è che il dibattito non ha avuto eco nella opinione pubblica, e 
 oggi in Italia pochi sanno che cosa è successo.
 Quasi certamente la riforma passerà in Parlamento. Resterà solo 
 il referendum per fermarla. Avremo occasione di risentirci, ma 
 ti dico subito che il mio sarà un no convinto
Mario Segni
 GdS 30 III 2005 - www.gazzettadisondrio.it
