LE RIFORME ISTITUZIONALI
 La questione istituzionale in 
 Italia va considerata tenendo presente il modo del tutto 
 particolare in cui essa si pone nella storia italiana degli 
 ultimi cinquanta anni. L'Italia presenta, infatti, due 
 fenomeni del tutto particolari. In primo luogo è l'unico 
 paese occidentale (con l'eccezione della Francia nel 1958) 
 ad avere realizzato nel dopoguerra un profondo cambiamento 
 del sistema politico, passando dal sistema proporzionale a 
 quello maggioritario. Il secondo è che l'Italia ha sempre 
 presentato, come problema peculiare, quello di una grave 
 debolezza e inefficienza della pubblica amministrazione, e 
 che questa è una delle differenze più significative rispetto 
 ai Paesi europei più vicini, come in altri tempi l'Impero 
 austro-ungarico, e in periodi più recenti la Francia, 
 l'Inghilterra, la Germania, e da ultimo la Spagna. E' in 
 relazione a questi due fenomeni che va studiata la questione 
 istituzionale e vanno prospettate le strategie. 
 E' indiscutibile che il cambiamento di sistema prodotto dai 
 referendum elettorali è ancora largamente incompleto. Non 
 solo con riguardo alla legge elettorale, tuttora ferma alla 
 ripartizione del 75% e 25% tra maggioritario e 
 proporzionale, frutto dei limiti tecnico giuridici del 
 referendum e purtroppo immodificata dopo l'insuccesso del 
 terzo referendum elettorale del '99, ma soprattutto in 
 relazione al fatto che il sistema complessivo dell'impianto 
 statuale, che poggiava sul proporzionale, è stato solo in 
 parte modificato, e spesso in modo contraddittorio. Il 
 movimento referendario ha determinato la elezione diretta 
 del sindaco e del presidente della provincia, e in un 
 secondo momento quella del presidente della Regione. Alcune 
 scelte poco appariscenti ma molto significative, come i 
 regolamenti parlamentari e le leggi sul finanziamento dei 
 partiti, sono andate addirittura in senso antimaggioritario, 
 favorendo la disgregazione. L'impianto pubblico è quindi di 
 tipo presidenzialistico in tutti gli enti locali con una 
 legge elettorale proporzionale ma con premi di maggioranza; 
 parlamentare ma con maggioritario a livello parlamentare. 
 Sotto il profilo della stabilità l'effetto è stato 
 straordinario nei comuni e province e si annuncia positivo 
 nelle Regioni. Nel governo centrale, dopo due legislature 
 burrascose, sembra questa la prima in grado di concludersi 
 con un governo di legislatura. 
 Ma la stabilità, per quanto importante, è solo un aspetto 
 del problema. Un sistema a governo forte, sia maggioritario 
 che presidenziale, ha infatti bisogno di un sistema di 
 garanzie e di contropoteri. Di questo non si è fatto 
 assolutamente nulla. Per di più il primo governo di 
 legislatura coincide con la vittoria di Berlusconi, e quindi 
 con un accentramento di potere mediatico e imprenditoriale 
 sinora sconosciuto e del tutto in contrasto con quelle che, 
 nella gran parte degli Stati occidentali, sono regole 
 giuridiche o prassi costantemente seguite. 
 La questione istituzionale oggi riguarda perciò non solo la 
 configurazione e i poteri degli organi dello Stato; ma una 
 serie di problemi del tutto nuovi, in parte frutto delle 
 trasformazioni vorticose della società moderna, che 
 riguardano i limiti e i confini delle autorità pubbliche: il 
 riferimento è alla disciplina della informazione e alla 
 questione nota col termine "conflitto di interessi". 
 In questa situazione sono possibili due strategie. Una è 
 quella del ritorno all'indietro. La società italiana, ne 
 siamo convinti, è in larga parte maggioritaria e bipolarista. 
 L'ultima volta che ha avuto occasione di pronunciarsi, come 
 nel Friuli sulla questione dello statuto, ha scelto a 
 larghissima maggioranza per il nuovo sistema. Ma il mondo 
 politico è in prevalenza nostalgicamente proporzionalista, 
 anche perché con il vecchio sistema il potere del personale 
 politico era molto più ampio. E' soprattutto con il pericolo 
 di un eccessivo accentramento nelle mani del sindaco, del 
 presidente o del Premier che si giustifica questa posizione. 
 La nostra opinione è che questo equivale a dire che l'unico 
 modo per evitare i troppi poteri è la paralisi. Ci si è 
 dimenticati del prezzo che l'Italia pagava per i governi che 
 duravano nove mesi, per i comuni e le regioni bloccate per 
 anni da crisi e verifiche.
 La nostra proposta è invece quella di andare avanti con 
 coraggio e completare la grande riforma delle istituzioni 
 iniziata con i referendum. Il primo passo è quello di 
 portare al governo centrale la riforma che così bene ha 
 funzionato nei comuni: la formula sarebbe quella del Sindaco 
 d'Italia, della elezione diretta del Premier. Scrivendo il 
 nome del candidato sulla scheda la riforma è già stata 
 anticipata nei fatti. Si tratta adesso di 
 costituzionalizzarla, attribuendo al Premier il potere di 
 nomina e revoca dei ministri e quello di scioglimento delle 
 Camere. 
 Il meccanismo elettorale cui pensiamo è quello del doppio 
 turno con ballottaggio, proprio come nei comuni. Il doppio 
 turno è indispensabile per la elezione di chi deve governare 
 il Paese, perché occorre che il premier abbia la investitura 
 di un alto numero di cittadini, e solo un ballottaggio la 
 assicura. Altrimenti, in caso di presentazione di molti 
 candidati, noi avremmo la possibilità di vedere un Premier 
 eletto e inamovibile con il consenso di una quota ridotta di 
 elettori. 
 Dai comuni al governo centrale il sistema avrebbe una sua 
 armonia. Naturalmente tutto questo non può essere fatto se 
 la riforma non è inquadrata in un solido sistema di garanzie 
 e se non è risolta la anomalia italiana del conflitto di 
 interessi e dell'informazione. E' giusto dare al Premier più 
 poteri e stabilità; non si può farlo se ha cinque 
 televisioni su sei. Già un geniale film di Orson Welles 
 anticipò l'idea che la stampa è il quarto potere. Con 
 l'enorme potenza della televisione si può dire oggi che la 
 prima garanzia di libertà è un complesso di regole che 
 garantisca il pluralismo. La legge Gasparri purtroppo va in 
 senso opposto. Ma a parte la attualità di questi giorni 
 bisogna seriamente porsi il problema se vada posta nella 
 Costituzione la separazione tra l'informazione e il potere 
 politico, oltre il principio del pluralismo, che è qualcosa 
 di diverso e più avanzato della formale difesa della libertà 
 di stampa, e che è da poco entrato nella Carta dei Diritti 
 della Unione Europa. 
 Il sistema di garanzie costituzionali deve poggiare sul 
 Presidente della Repubblica. Deve assolutamente essere 
 mantenuta la elezione parlamentare del Presidente (una 
 elezione diretta lo trasformerebbe da presidente di garanzia 
 in presidente politico), e occorre anzi valutare se non sia 
 il caso di elevare il quorum, ma le sue funzioni vanno 
 ampliate. Già oggi, di fatto, il Presidente della Repubblica 
 si pone come l'architrave delle garanzie costituzionali. Ma 
 non basta. Perciò proponiamo due cose: il potere di nomina 
 delle più importanti authorities, e di una quota del 
 Consiglio Superiore della Magistratura. Quest'organo va 
 riformato, ma si deve evitare il doppio pericolo di una sua 
 politicizzazione (se si aumentano i membri eletti dal 
 Parlamento) e di un corporativismo. La strada equilibrata 
 sembra quella di far nominare un terzo dei membri dal Capo 
 dello Stato; portando qui il sistema che ha ben funzionato 
 per la Corte Costituzionale. 
 Vanno invece abolite le funzioni di garanzia dei Presidenti 
 delle Camere. Col maggioritario i Presidenti diventano gli 
 speaker della maggioranza. Non ha più senso, ad esempio, che 
 siano loro a nominare il Consiglio di Amministrazione della 
 RAI. 
 Il referendum è un grande strumento di garanzia. E' l'unico 
 istituto che consente di verificare se su un singolo 
 problema vi sia una divergenza tra la maggioranza 
 parlamentare e il corpo elettorale. Nella storia italiana ha 
 svolto una funzione di straordinaria importanza 
 determinando, proprio grazie alla pressione della società, 
 svolte e cambiamenti che il mondo politico non avrebbe mai 
 fatto. La sua importanza aumenta in un sistema 
 maggioritario, proprio per questa sua capacità di registrare 
 divergenze tra cittadini e Parlamento. La soglia del 50% più 
 uno del quorum, diventata anacronistica in una società in 
 cui mediamente non votano il 30 o il 40% degli elettori, ha 
 praticamente cancellato il referendum. E' un grande sbaglio. 
 Bisogna ridare al referendum la funzione di garanzia che gli 
 è propria, abrogando la norma che fissa il quorum, o 
 studiando altre tecniche per rivitalizzare l'istituto 
 referendario. 
 Anzi, proprio l'importanza del referendum come strumento di 
 garanzia ci porta a considerare un istituto che sinora non 
 esiste nel sistema italiano, e che noi stessi abbiamo 
 considerato con prudenza: il referendum propositivo. 
 Inquadrato in una serie di norme che lo rendano esperibile 
 solo a particolari condizioni (alto numero di firme per la 
 richiesta, esclusione di materie su cui è sconsigliabile la 
 scelta diretta dell'elettorato), anche il referendum 
 propositivo potrebbe diventare un tassello importante nel 
 sistema di garanzie. 
 La pubblica amministrazione ha vissuto in questi decenni due 
 fenomeni di profonda trasformazione: la nascita e il 
 progressivo aumento di competenze delle regioni, e la spinta 
 alla liberalizzazione e alla privatizzazione di una serie di 
 pubblici servizi. La prima ha portato al trasferimento di 
 molte competenze dalla burocrazia ministeriale a quella 
 regionale; la seconda ha spostato sulla sfera privata una 
 serie di compiti. 
 La regionalizzazione non ha contribuito a risolvere i 
 problemi della amministrazione. Il funzionamento della 
 burocrazia regionale non è per nulla superiore a quella 
 statale, salvo forse per qualche felice eccezione (il 
 Trentino, l'Emilia Romagna?); in molte regioni del Sud, al 
 contrario, il livello medio di efficienza amministrativo è 
 peggiorato. Cittadini e imprenditori sanno bene che da molte 
 parti avere a che fare con la burocrazia regionale è più 
 faticoso che trattare con quella statale. Sia ben chiaro; 
 non pensiamo di tornare indietro, anche perché tutto questo 
 si inquadra in un vasto movimento europeo. Ciò che appare 
 nefasta è invece la devolution di Bossi, di cui non si 
 capiscono bene i contenuti, ma che sembra evocare due idee 
 sbagliate e pericolose. Da un lato la mortificazione dello 
 Stato nazionale, con tutto ciò che in esso vi è di 
 fondamentale nel nostro passato e di essenziale per il 
 nostro futuro. Dall'altro il pericolo di svuotare i comuni 
 in un nuovo centralismo regionalistico (e da molte parti sta 
 già accadendo). Noi siamo per la sussidiarietà, e quindi 
 contro ogni forma di centralismo ingiustificato. Non si 
 capisce perché il centralismo debba essere sempre cattivo a 
 Roma e sempre buono a Milano o a Bari. Il centralismo, se 
 non seriamente giustificato, è sbagliato a tutti i livelli, 
 nazionale e regionale. 
 L'esempio più evidente di devolution che toglie competenze 
 ai comuni per darle alle regioni, e quindi accentra invece 
 che decentrare, e va contro la sussidiarietà, è la proposta 
 costituzionale della Lega di dare alla regioni competenza 
 esclusiva sulla polizia locale. Per la verità la Lega non ha 
 mai chiarito che cosa sia questa polizia locale. Ma poiché 
 sembra folle creare una nuova polizia con compiti generali, 
 la riforma sembra accentrare sulle Regioni tutte le funzioni 
 di polizia amministrativa oggi esercitate dai comuni. Ma 
 perché il vigile urbano di Vigevano deve dipendere dal 
 Presidente della Regione che sta a Milano invece che dal suo 
 Sindaco? Sarebbe invece importante aumentare i compiti della 
 polizia locale oggi inquadrata nei comuni, dandole anche 
 competenze sui reati minori. Il sindaco avrebbe quindi 
 competenze per affrontare quei problemi di microcriminalità 
 che sono strettamente legati alla vita delle città e che di 
 fatto lo vedono già coinvolto. 
 La delega di poteri ai sindaci, però, deve essere seria e 
 intelligente. Per un verso, ad essa devono accompagnarsi 
 adeguati strumenti finanziari. Per altro verso, i sindaci, o 
 loro delegati, devono risultare affidatari di competenze 
 attualmente assegnate a funzionari amministrativi sprovvisti 
 di responsabilità politica (la ostilità verso la Giunta da 
 parte di un funzionario amministrativo, è in grado oggi di 
 creare gravi problemi di governabilità). 
 L'aumento delle competenze dei sindaci trova adeguato 
 bilanciamento nella regola che impedisce la rieleggibilità 
 dopo il secondo mandato. Tale regola deve essere mantenuta 
 ferma, almeno nei comuni con più di 5.000 abitanti. 
 La linea della privatizzazione di alcuni servizi è giusta, e 
 va nel senso dell'ammodernamento del Paese. Bisogna però 
 evitare di cadere in un grande equivoco. Una frettolosa 
 interpretazione del liberismo thatcheriano ha portato alla 
 conclusione che la società moderna debba fare a meno dello 
 stato e della pubblica amministrazione, considerate come un 
 fastidioso peso. È infelicissima la frase ad effetto di 
 Reagan "Il problema non è riformare lo Stato, il problema è 
 lo Stato". Non solo la statualità è un elemento 
 insostituibile di qualunque organizzazione civile, se non 
 vogliamo scambiare il Far West per il progresso, ma proprio 
 questi anni dimostrano quanto sia fondamentale, proprio per 
 il progresso e la modernizzazione della società, un alto 
 livello di pubblica amministrazione. In alcuni settori, come 
 la ricerca scientifica e l'insegnamento, la sanità e la 
 previdenza, l'organizzazione pubblica è insostituibile, 
 anche se va affiancata da una attività dei privati. 
 La riforma e la modernizzazione della pubblica 
 amministrazione non ha raggiunto il grado di maturazione del 
 tema istituzionale, che da dieci anni è centrale nel 
 dibattito italiano. Per questo ci limitiamo a lanciare 
 alcune idee. 
 L'amministrazione italiana ha una fascia di personalità e di 
 competenze di altissimo rilievo. Da alcune correnti 
 politiche è stata sistematicamente condotta, negli ultimi 
 anni, un'opera di denigrazione e di mortificazione 
 dell'intero settore. Gli effetti possono essere 
 destabilizzanti. La parte migliore dell'amministrazione ha 
 sempre seguito i suoi compiti per passione e per orgoglio, 
 assai più che per il livello di retribuzioni quali sempre 
 inadeguate. 
 La privatizzazione del contratto va portata alle sue logiche 
 conseguenze. La prima è la caduta, o almeno la progressiva 
 riduzione, in concreto non in astratto, della inamovibilità. 
 La applicazione della regola di "licenziare i fannulloni", 
 nella amministrazione pubblica come nella azienda privata, è 
 un requisito insostituibile di funzionalità. La seconda 
 conseguenza è la progressiva valorizzazione della carriera 
 per merito, in contrasto con una lunga spinta corporativa e 
 sindacale all'appiattimento per anzianità. La rigida 
 progressione della anzianità del resto è più che mai vigente 
 per alcuni importanti carriere, come la magistratura. 
 Il segreto dell'alto livello dell'amministrazione di alcuni 
 Paesi, come la Francia, è la presenza di scuole di 
 preparazione dei pubblici amministratori. Un pezzo della 
 storia di Francia è stata fatta dall'ENA. Perché in Italia 
 non potenziare la Scuola Superiore della Pubblica 
 Amministrazione? 
 Il successo di alcuni nuclei di alta specializzazione, come 
 quello creato a suo tempo da Ciampi al Ministero del Tesoro, 
 dimostra la validità della formula relativa all'uso di 
 personale esterno, con contratti liberi. 
 L'informatizzazione degli uffici vale un sacrificio 
 finanziario di portata assai maggiore di quello che si sta 
 facendo. 
 La giustizia civile presenta problemi attuali, ma troppo 
 spesso trascurati: occorre richiamare l'attenzione 
 dell'opinione pubblica su questi temi, individuando gli 
 strumenti che consentano di rendere i giudizi meno lenti.
Mario Segni
 GdS 18 XI 03  www.gazzettadisondrio.it
