MA DOVE È FINITA LA DEMOCRAZIA?

Intervista a Michele Ainis, costituzionalista, docente all'università di Roma Tre

Mi sento confusa in quest'orribile calderone che è diventata la politica italiana che avrebbe dovuto rendere più solidali gli italiani a mezzo di una equa ripartizione delle tasse e di quanto si deve- come cittadini- ai servizi che ogni persona gode nel suo ambiente.

Sono stravolta, nel leggere i quotidiani che non fanno che riportare miserie, ignominie dei vari Partiti che ora si contendono il "governo" del nostro bellissimo Paese per continuare la terribile truffa di cui - noi poveri e onesti cittadini- siamo la "preda". Ma che diamine, siamo tornati al Medioevo, al tempo in cui vigevano le lobby o i vari signorotti che- con soldi ed armi- riuscivano a dominare su tutto?

Oh, Italia, non cadere nei tranelli di Monti, Bersani , Casini (quanto mi è antipatico questo "pseudo-cattolico" che ha una storia familiare, altro che cristiana), ma scegli con criterio le persone che - purtroppo - dovranno governarci.

Che spavento, mio Dio!

Riporto qui una intervista a Michele Ainis, costituzionalista, docente all'università di Roma Tre. Scrive sul "Corriere della Sera" e su "l'Espresso". Ha pubblicato una ventina di saggi su temi politici e istituzionali. Il libro di cui si parla nell'intervista è Privilegium, Rizzoli 2012 (Cfr. La Città).

Ecco - di seguito - le domande e le risposte.

Domande e risposte

- In un Paese feudale, dove ciascuno alla fine ha la sua piccola casta di appartenenza, l'importanza di recuperare la fratellanza e una "disuguaglianza ben temperata"; una Camera dei cittadini sorteggiati e il recall, cioè la revoca dell'eletto immeritevole, come possibili rimedi; le 63.000 deroghe.

Dai dati che lei ha raccolto e pubblicato emerge un paese quasi feudale, dove non c'è solo la casta dei politici, ma ciascuno alla fine difende i suoi piccoli e grandi privilegi di casta, di lobby, di corporazione. Data questa situazione, che ricorda quella dell' ancien regime, all'interno della triade valoriale del 1789, lei pone l'accento sulla fraternité, una parola non più molto in voga...

Evitando ora scrupoli filologici sul significato originario, è senz'altro vero che noi oggi non ne parliamo più, parliamo magari di solidarietà, che però è un concetto diverso, anche se apparentato. Ora, fraternité è la fratellanza ed è direttamente collegata all'uguaglianza perché tuo fratello è diverso da te, non è identico, ma in qualche modo ha il tuo stesso sangue. Allora questa consanguineità, che ci dovrebbe riguardare come italiani, in realtà non c'è più ed è un effetto della disgregazione sociale e del neocorporativismo di cui abbiamo detto. Il deficit di fraternità è un deficit di unità. La fratellanza probabilmente è un concetto che si può situare a metà del guado; le due sponde sono uguaglianza e unità. La fratellanza in qualche modo le congiunge. Oggi non c'è, infatti noi viviamo da "separati in patria". Ricorderà il familismo amorale di cui si parlò a proposito del nostro Sud. In realtà adesso riguarda un po' tutti, nel senso che ciascuno immagina di essere al riparo sotto un tetto che è il tetto - più che della sua famiglia - della sua corporazione. Ecco, questo fatto ci separa. Ciascuno riconosce la propria genia nella categoria sociale alla quale appartiene, nella quale si iscrive volontariamente. Ma questa è la fratellanza che lega i "fratelli" intesi come appartenenti alle varie logge, nel senso che non riguarda tutti, ma soltanto i congiurati.

- Lei poi non parla di egualitarismo, bensì di una "disuguaglianza ben temperata". Può spiegare?

Qui non si tratta di coltivare un egualitarismo. Bobbio distingueva tra eguaglianza e egualitarismo, che è un'eguaglianza di tutti in tutto e quindi è un'eguaglianza nei punti d'arrivo. Per come è stata declinata dai regimi comunisti del Novecento l'esito è stato non solo lo stesso stipendio ma anche la stessa giacchetta, come quella del presidente Mao... Viceversa, una disuguaglianza ben temperata è un'eguaglianza liberale, cioè nei punti di partenza, immaginando una gara sociale in cui vince chi ha più voglia e chi ha più gambe, e non chi un appoggio truccato da parte dell'arbitro. Pertanto all'arrivo non c'è più uguaglianza, c'è una diseguaglianza, nel senso che uno farà il chirurgo e l'altro non so che cosa, però il risultato dovrebbe fondarsi sui meriti, sui talenti, la rivoluzione dei talenti di cui si parlava negli anni della Rivoluzione francese.

Perché questo sia possibile di nuovo c'è da rompere questo muro dalle corporazioni che non fanno certamente emergere i talenti, ma semmai i parenti!

- Nel denunciare l'esistenza di tante piccole caste e privilegi, lei in fondo chiama in correità l'intera società civile. Ma come se ne esce?

Le vie d'uscita sono quelle che ho provato a indicare nel libro. Sono delle riforme visionarie che molto difficilmente verranno realizzate, me ne rendo conto. D'altra parte, ritengo che questa sia una fase della nostra storia collettiva in cui l'aspirina non basta più per guarire dal malanno, perché il malanno non è un raffreddore, ma una polmonite. E allora hai bisogno di medicinali forti, se non dei ferri del chirurgo. Fuor di metafora voglio dire che abbiamo bisogno di riforme radicali. Il che significa, per esempio, che anziché baloccarsi (lo facciamo ormai da trent'anni) sulla riforma del bicameralismo, di cui per carità c'è bisogno, perché occorre snellire tutto il procedimento farraginoso che abbiamo addosso, però c'è un'urgenza ancora più pressante a disinnescare i conflitti di interesse e a realizzare un'eguaglianza anche nella società politica. Per esempio ricorrendo in qualche caso anche ai meccanismi del sorteggio. Lo diceva già Montesquieu: il sorteggio "serve" l'idea dell'uguaglianza, cioè è strumento dell'eguaglianza. Con il sorteggio infatti siamo tutti uguali. Questo lo dico in relazione a una delle proposte che avanzo, cioè la "Camera dei cittadini", che non sarebbe una camera legislativa, bensì diciamo propulsiva, ma anche di controllo su alcune scelte legislative.

- Quando parla dei rimedi, lei indica, da una parte, una riforma dal basso, quindi democrazia partecipativa, referendum senza quorum, che riguardano il livello dei cittadini; poi c'è il vertice, dove vengono prese le decisioni, quindi la riforma delle due camere. Mi chiedo se non sia auspicabile, nel mezzo, anche la formazione di una nuova leva di funzionari pubblici veramente civil servant.

Io credo intanto che ci sia una responsabilità dei docenti, quindi della categoria alla quale sono iscritto, anche per una serie di cattive riforme che hanno banalizzato l'istruzione superiore. La riforma dei crediti universitari, per esempio, ha significato ridimensionare tutti i programmi universitari: se il tuo programma vale sei crediti, il manuale dovrà essere di cinquecento pagine, non di più. Molte università si sono date anche questo tipo di regolamenti, quindi si è un po' immiserito l'insegnamento universitario.

Poi c'è da dire che noi non abbiamo l'Ena, l'École nationale d'administration che hanno i francesi. Per carità, non voglio parlarne male, ma, insomma, certamente la nostra Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione non è alla stessa altezza.

Inoltre abbiamo trasformato i concorsi universitari in un raffinato strumento di selezione dei peggiori. La Gelmini ha reintrodotto (perché una volta c'era) il sorteggio per la formazione delle commissioni di concorso. Ora, con tutti i limiti dell'operazione, perché nel frattempo c'è stata una paralisi e di concorsi non se ne fanno più, con la conseguenza che un'intera generazione è rimasta fuori dalla porta, però almeno questo sistema ostacola la possibilità di combine. Anche qui il sorteggio può essere uno strumento per coniugare uguaglianza e merito.

In sintesi, c'è bisogno, da un lato, di rimettere mano alla formazione, per renderla più seria anche più selettiva, perché no? Dall'altro, di mettere mano alla macchina dei concorsi. L'articolo 97 della Costituzione dice che alle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, "salvo i casi previsti dalla legge". Quindi la regola è il concorso, l'eccezione è uno strumento diverso di reclutamento. Di questo ho parlato ne La cura, uscito per Chiarelettere nel 2009.

Il fatto è che, dati alla mano, nel nostro Paese l'eccezione si è trasformata in regola nel senso che troppe volte succede che viene bypassato il meccanismo del concorso. E quando invece il concorso si svolge, spesso è un concorso truccato, non sufficientemente presidiato, controllato.

Dopodiché tu, ai dipendenti pubblici, puoi fargli fare la formazione continua, ecc., però, insomma, mi sembra che i problemi siano po' a monte.

Aggiungo che noi abbiamo anche bisogno di meno Stato perché lo Stato sia più autorevole.

È il discorso dell'elefantiasi della macchina pubblica che possiamo replicare quante volte vogliamo: abbiamo troppi parlamentari e quindi il Parlamento è meno autorevole ed è anche più farraginoso; abbiamo troppi consiglieri regionali, abbiamo troppi politici a tutti i livelli e il risultato non è un rafforzamento dello Stato, ma paradossalmente un suo indebolimento e discredito.

- Per rivitalizzare la democrazia rappresentativa, lei propone l'introduzione di un ulteriore istituto di democrazia diretta, il recall, cioè la revoca anticipata dell'eletto immeritevole. Può spiegare?

Il recall funziona in varie parti del mondo e ha delle discipline poi diverse da Stato a Stato. La funzione del recall è quella di utilizzare uno strumento di democrazia diretta per rendere più autorevole la democrazia rappresentativa. La democrazia rappresentativa, quella delegata, quella dei consiglieri regionali, dei parlamentari, diventa più autorevole se chi si trova a esercitare un ruolo di potere deve poi risponderne e renderne conto. Io ho sempre pensato questo, che la democrazia è un rendiconto sull'esercizio del potere.

Il recall è questo, nel senso che mi consente di revocarti se io che ti ho eletto ritengo che tu sia - o sia diventato- immeritevole rispetto a quella carica. Però richiede alcune condizioni. La prima è che si può applicare soltanto alle cariche pubbliche elettive monocratiche. Perché se io applico il recall in un collegio elettorale plurinominale potrebbe essere alterato il gioco democratico: poniamo che nel collegio di Aosta ci siano quattro posti a tavola e tre se li prende la maggioranza, uno la minoranza. Se consento il recall in quel collegio, la maggioranza potrebbe chiederlo per revocare l'unico eletto della minoranza accaparrandosi così tutti e quattro i seggi. Quindi il recall funziona per i parlamentari eletti in collegi uninominali, per i sindaci, per i presidenti di Regione. Negli Stati Uniti lo applicano anche ai giudici perché sono elettivi, ai direttori delle scuole, ecc.

In secondo luogo, non può essere consentito già all'indomani delle elezioni perché altrimenti diventerebbe una nevrosi, quindi bisogna stabilire un lasso temporale minimo, non so, un anno, prima di poter utilizzare questo strumento. Inoltre, lo si può utilizzare o per una serie chiusa di cause, oppure per una serie libera: qui dipende dalla concreta fisionomia che si intende dare all'istituto del recall. Infine, la richiesta deve provenire da una frazione significativa del corpo elettorale. Ecco, queste sono, in sintesi, le condizioni per renderlo uno strumento serio.

- Ha fatto cenno all'eccesso di deroghe ed eccezioni alla regola. Su questo lei avanza una proposta precisa e cioè che le leggi contenenti deroghe alla legge generale siano espressamente motivate. Può raccontare?

Nel nostro ordinamento le leggi non devono essere motivate. Ricordo una sentenza della Corte costituzionale del '64, che riguardava la legge che ha creato l'Enel, la nazionalizzazione dell'industria elettrica; ecco, in quell'occasione spuntò fuori una questione di questo tipo e la Corte disse giustamente che la legge trova le proprie ragioni nella legittimazione dell'organo (un'assemblea parlamentare) che l'ha varata e che è un organo elettivo, quindi investito della rappresentanza dei cittadini. Questa è la stessa ragione per cui, invece, vanno motivati gli atti amministrativi e le sentenze, perché lì si tratta di persone che hanno vinto un concorso, che, dunque, non hanno questa legittimazione diretta e quindi devono motivare. E la motivazione a cosa serve? Per esempio tra i processualisti c'è un dibattito sulla funzione della motivazione, se interna o esterna. Una corrente dice che la motivazione serve al giudice d'appello per controllare il percorso argomentativo di primo grado. Però questa idea si scontra con il fatto che vanno motivate anche le sentenze della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato, della Cassazione, cioè dei giudici di ultima istanza.

Allora è piuttosto l'altra, la ratio della motivazione, cioè quella di consentire un controllo pubblico delle ragioni che sostengono una decisione pubblica. Questo controllo virtualmente può essere esercitato dalla comunità di tutti i cittadini, magari attraverso un filtro, che è quello della comunità dei chierici, cioè del professore che scrive sul giornale, su una rivista giuridica, ecc.

Questo sarebbe il modo di funzione del sistema.

Ora, se questo è vero, cioè che la legge in generale non richiede motivazioni, io direi che, fermo restando questo principio, in alcuni casi invece, come quando si tratta di introdurre una deroga, la motivazione è doverosa. Perché? Una volta l'ho sentito spiegare da Zagrebelsky: chi è il tiranno? Il tiranno è colui che si può sottrarre alla regola senza doversi giustificare, quindi può fare quel che gli pare. Allora, se tu ti sottrai alla regola perché poni delle affirmative actions per le donne oppure per gli indiani, per i reduci del Vietnam, come fanno in America, oppure introduci una situazione di disuguaglianza perché quel College accetta tutti quelli che superano le prove selettive con una media di 28 però se sei nero entri con 24, ti devi giustificare. In America è così: "In questo college la popolazione nera è il 5% e allora c'è una qualche discriminazione sociale che mi impedisce di ospitare anche i più meritevoli e quindi io applico -come dicono loro- una reverse discrimination, una discriminazione alla rovescia, per ristabilire l'eguaglianza". Ecco, questo dovrebbe valere sempre, anche quando la deroga serve in realtà ad allietare il palato di una lobby.

Però la mia proposta non è soltanto la motivazione, che è servente al principio di trasparenza: "Quantomeno mettici la faccia, dimmi perché stai favorendo la lobby degli avvocati o dei petrolieri", cioè fai lo sforzo di trovare delle pezze d'appoggio. Io faccio una proposta ulteriore, che è anche più forte e assolutamente visionaria: quando tu Parlamento-legislatore introduci una deroga, serve una maggioranza assoluta. Si tratta di rendere più difficile l'approvazione di deroghe. Qualunque legge in Parlamento oggi viene approvata se viene votata dalla metà più uno dei presenti. Ecco, in questo caso servirebbe invece la metà più uno dei componenti l'assemblea legislativa. D'altra parte esistono già delle tipologie legislative in cui le maggioranze sono più alte, per esempio per l'amnistia e l'indulto ci vogliono i due terzi.

Allora, per concludere, se è vero che siamo messi così, e cioè che "la legge è uguale per tutti" è diventata solo una formula che sta scritta nei tribunali; se è vero, come è vero, che ci sono 63.000 norme di deroga, e quindi che in realtà "la legge è diseguale per tutti", ecco allora che la mia proposta, alla fine, per ripristinare le condizioni di quella "disuguaglianza ben temperata" di cui abbiamo parlato, è di rendere più difficile il lavoro sporco( UNA CITTÀ n. 199 / 2012 Dicembre 2012-Gennaio 2013).

Carissimi tutti, regolatevi secondo la vostra coscienza, ma non con quello che sentite dai vari "tromboni" politici, compreso il Mario Monti.

Ah, quanto dobbiamo soffrire noi poveri italiani che abitiamo in una terra eccezionale ed invidiata da tanti nel mondo!

Viva- ad ogni costo e contro le Lobby- l'Italia che saprà sempre risorgere ed offrire al mondo intero la sua immagine di bellezza, cultura, fantasia che in ogni modo, ci fanno essere sempre ai primi posti in classifica nell'universo.

Maria de falco Marotta

Politica