CONVIVERE CON LA PAURA
 NIENTE PIU' COME PRIMA
 Prendere un autobus, infilarsi in un vagone del treno o della 
 metropolitana, salire su un aereo, recarsi al lavoro, sedersi in 
 ufficio, fare la coda all’ufficio postale, andare al ristorante 
 o al bar, andare a scuola o in chiesa.
 Per gli Americani, come per tutti noi, sono attività normali che 
 appartengono alla vita di ogni giorno. 
 Da quando, però, i terroristi hanno colpito al cuore proprio la 
 vita quotidiana di tanta gente comune, niente di tutto questo 
 potrà più essere com’era prima; l’hanno detto in tanti e lo 
 ripeto anch’io: perché adesso c’è la paura!
 Già, e con essa bisognerà convivere molto a lungo perché lungo 
 sarà il percorso da fare per neutralizzare alla radice le sue 
 cause; e le cause che generano la paura che ci pervade hanno 
 origini lontane e radici che affondano nella ingiustizia, 
 maturata specie nel XX secolo, per opera dell’occidente, a danno 
 dei quattro quinti dell’umanità.
 L'OCCIDENTE DEVE RIFLETTERE
 Nessuna giustificazione può essere portata a difesa degli 
 attacchi terroristici, così come li abbiamo visti lo scorso 11 
 settembre ma, proprio per questo, l’occidente, anche su 
 esplicito invito del Santo Padre e al di là delle giuste 
 ritorsioni contro gli ispiratori e i mandanti degli attentati, 
 l’Occidente dicevo, ha il dovere di cambiare profondamente il 
 suo rapporto con il resto dei popoli del pianeta; ha il dovere 
 di scuotersi dal torpore, di aprire gli occhi e uscire da quella 
 specie di sogno che immagina una pace e un progresso garantiti 
 per sempre.
 L’occidente non può pensare di poter puntare all’infinito al 
 controllo delle risorse disponibili al mondo: acqua, petrolio, 
 materie prime, derrate alimentari, finanze, eccetera, senza far 
 partecipare al proprio sviluppo i Paesi del Terzo e Quarto 
 mondo; questo modo imperialista di sfruttare il pianeta lo 
 espone sempre più al rischio della propria incolumità e 
 sicurezza. 
 Il mondo occidentale deve avviare una politica organica che 
 prepari lo sviluppo attraverso scelte che riguardano ad esempio 
 il commercio equo e solidale, una lotta organizzata contro la 
 fame e la miseria, la cancellazione del debito dei Paesi più 
 poveri. Con la consapevolezza che senza sviluppo globale non può 
 esserci pace, libertà, giustizia e democrazia.
 Dopo la distruzione violenta delle torri di New York e di 
 Washington, si odono sempre più forti le voci dei Paesi 
 occidentali, e non solo occidentali, che invocano “pace e 
 libertà”. Anche il Capo dello Stato Ciampi ha invocato in più 
 occasioni il perseguimento della pace e la difesa della libertà.
 E’ allora necessario che tutti questi Paesi, per i quali il 
 valore della libertà è fondamentale, arrivino a riconoscere di 
 fatto che l’accesso al cibo, all’acqua, alla salute e 
 all’istruzione, sono componenti fondamentali della libertà 
 stessa e, in pratica, la sua condizione.
 Ma non può esserci pace senza giustizia.
 NON PUO' ESSERCI PACE SENZA GIUSTIZIA
 La sola vera risposta alla sfida della barbarie non può essere 
 la vendetta ma la giustizia. La giustizia esige anzitutto di 
 accertare rigorosamente la verità sulle stragi terroristiche, su 
 quelle avvenute e su quelle in corso d’opera con l’uso di armi 
 batteriologiche, magari chimiche e nucleari.
 Giustizia vuole che siano raggiunti i colpevoli, che siano 
 processati, giudicati e condannati.
 Va al di là della giustizia però, punire gli innocenti, 
 bombardando inevitabilmente, come si sta facendo, la popolazione 
 inerme, colpevole solo di essere schiava di un potere fanatico e 
 tirannico alimentato e sorretto da traffici illegali e mafiosi.
 Mi rendo conto delle difficoltà che incontra il discorso che sto 
 facendo, ma come tanti, penso, sono pervaso da un forte senso di 
 paura dell’imminenza e dell’incognita del pericolo. 
 Un’angoscia derivata dal fatto che scopriamo ora che la guerra, 
 non meno della pace, fa parte della storia dell’uomo, che non ci 
 basta più l’idea di pace come assenza di conflitto e che anche 
 le nostre idee di guerra non trovano più alcun riscontro. 
 Abbiamo assistito stupiti ma molto distratti, agli interventi 
 bellici e ai genocidi consumati nei Balcani nell’ultimo scorcio 
 del secolo scorso; e ora ci troviamo di fronte all’incapacità di 
 distinguere tra guerra interna e guerra esterna, tra combattente 
 (soldato in divisa) e civile. Addirittura il problema della 
 sicurezza personale diventa il problema della salute, sullo 
 sfondo di un’annunciata offensiva biologica, batteriologica e 
 chimica.
 ABBIAMO DISIMPARATO A PENSARE ALLA GUERRA
 Dicono alcuni studiosi “che abbiamo disimparato a “pensare la 
 guerra” con tutto il rigore necessario; che a forza di non 
 pensare la guerra, ci siamo convinti che la pace sia la 
 condizione naturale della vita collettiva; e che la pace, 
 invece, è una condizione che si raggiunge con un continuo, 
 quotidiano, sforzo e impegno anche personale di costruzione”. 
 Grande verità!
 Infatti, “pensare la guerra” non significa essere apologeti 
 della medesima. In un certo senso pensare alla guerra significa 
 pensare la propria morte; e pensare la morte è necessario per 
 preparare seriamente la vita. Pensare la guerra significa anche 
 prendere coscienza di avere paura.
Non bisogna vergognarsi di avere paura. 
 La paura è un sentimento umano come il coraggio. Convivere con 
 la paura può esserci d’aiuto per riflettere, per ripensare il 
 nostro modello di vita, per avviare la costruzione, per noi e 
 per i nostri figli, di un futuro non più fondato 
 sull’ingiustizia, sull’egoismo e sul privilegio, ma sulla 
 giustizia e sulla pace.
Valerio Delle Grave
 GdS 7 XI 01
                         
 
                               
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