In Iran non si muove una foglia se non lo decide Khamenei

Dopo le elezioni rapporti migliori con l'Occidente? Il saggio che pubblichiamo è ulteriore conferma della competenza dell'autrice. Merita una lettura

Felicissimi che in Iran le elezioni, con molta affluenza dei giovani, hanno portato Hassan Rohani , come nuovo presidente della Repubblica islamica dell'Iran. E' stato eletto al primo turno delle elezioni presidenziali con il 50,7% dei voti. Il Paese è giovane, mediamente più istruito, più aperto e più moderno di tutti gli altri Paesi mediorientali. Definirlo "regime degli ayatollah" è molto sbrigativo e non serve a rispondere a un quesito basilare: perché quel sistema politico resiste, nonostante sia in crisi evidente ormai da anni? Per provare a dare una spiegazione è necessario un passo indietro ritornare al tempo dello Scià.

Al tempo dello Scià

Lo Scià governava con il terrore un Paese profondamente ingiusto: i profitti del boom petrolifero erano nelle mani di 50 famiglie, mentre buona parte della popolazione rimaneva povera e analfabeta. Ma nel 1978 nessuno si aspettava un cambiamento tanto profondo e repentino. Perché la rivoluzione iraniana - è bene ricordalo - non nasce come islamica: vi partecipano forze laiche e marxiste, alleate con i mullah contro il tiranno. E sono tanti a credere che il clero - una volta cacciato lo Scià - tornerà nelle moschee, non si occuperà di politica. E' proprio questo il grande paradosso: la rivoluzione islamica avviene in Iran e non nei Paesi in cui sono nati i primi movimenti islamisti sunniti (Pakistan o Egitto), che hanno teorizzato per primi la creazione di uno Stato islamico. La tradizione sciita non prevede affatto che il clero prenda in mano le redini della politica, ma afferma anzi già dalla fine del IX secolo, che la ricomposizione tra politica e religione sia affidata al Mahdi, il dodicesimo Imam nascosto che tornerà alla fine dei tempi per riportare l'ordine di Dio in terra. Fino ad allora religione e politica devono restare separate e non spetta certo al clero sciita chiedere o realizzare uno Stato islamico. In questo contesto il pensiero di Khomeini e i suoi sviluppi dopo il 1979 sono una novità sconvolgente, per il pensiero sciita. La rivoluzione si realizza anche perché in Iran il clero è l'unica forza organizzata in grado prima di resistere e poi di sostituire la macchina repressiva dei Pahlavi. Ma resterà una rivoluzione più "sciita" che "islamica" e irrimediabilmente circoscritta all'Iran, malgrado gli sforzi di Khomeini di esportarla nei Paesi arabi.

Quanto pesa il clero

Il clero si impone in virtù non solo di un'organizzazione capillare, ma anche di un'enorme disponibilità economica. Nello sciismo, infatti, il fedele può scegliere una propria guida religiosa (marja' al taqlid, "fonte di imitazione") a cui devolvere anche il proprio sostegno economico. Khomeini, fin dal suo primo esilio in Turchia, accumulò un'autentica fortuna (valutabile in milioni di euro) proprio dalla sua rapida affermazione presso i bazarì, i commercianti benestanti. Che sono uno dei pilastri della società iraniana, oggi come ieri. Non c'è passaggio storico nella storia recente che avvenga senza l'approvazione dei bazarì. La rivoluzione del 1979 non fu opera soltanto di studenti, intellettuali e mullah. Il bazar ebbe un ruolo chiave nel cambio di regime e ha oggi un ruolo altrettanto decisivo nel mantenimento dello status quo. Il regime ha una base di consenso proprio nelle classi più ricche, che possono fare affari pazzeschi in virtù di un prelievo fiscale praticamente inesistente. In Iran il bilancio statale si basa sui proventi del petrolio, non sulle tasse. Ai cittadini si può dare poco in termini di servizi proprio perché si chiede loro pochissimo in termini di contributi. Il petrolio è probabilmente il più importante elemento di continuità tra Iran pre e post rivoluzionario. La distribuzione della ricchezza (a dispetto di quanto proclamato dal regime nei sermoni della preghiera del venerdì) avviene ancora dall'alto. Gli iraniani non sono forse meno sudditi oggi di quanto lo fossero sotto i Pahlevi.

Il consenso reale

La borghesia medio alta di Teheran nord è stanca dei limiti alla libertà personale, storce il naso di fronte alla polizia religiosa e manda i propri figli a studiare all'estero, ma poi continua a fare affari con gli ayatollah. I 150.000 giovani che lasciano l'Iran ogni anno sono in genere laureati e possono contare su una rete di contatti solidi in Europa, negli Usa o in Australia. Quando nell'ottobre 2008 Ahmadinejad propone l'introduzione dell'IVA, i bazar delle principali città scelgono la serrata. E il Presidente si rimangia il provvedimento. Non dobbiamo pensare ai bazarì come a semplici venditori di tappeti o pistacchi. Nel bazar di Teheran si stipulano accordi miliardari, si decidono investimenti in infrastrutture e movimenti finanziari. Lo Stato controlla (direttamente o attraverso le fondazioni) quasi l'80 per cento dell'economia e lascia alle classi più povere le briciole (sussidi all'agricoltura) e qualche occupazione nelle varie fondazioni nate con la repubblica. Ahmadinejad è stato votato proprio dai mostazafin, gli oppressi, i "senza scarpe". Che sono tanti, ma stanno sicuramente meglio di trent'anni fa. L'Iran dello scià non era solo quello di Soraya e delle feste a corte. Era soprattutto un Paese in cui la mortalità infantile era il doppio rispetto ad oggi e in cui era alfabetizzata meno della metà della popolazione. Non dobbiamo dimenticare, poi, che dal 1979 la popolazione iraniana è raddoppiata, passando da 35 a 70 milioni.

La incredibile modernizzazione

Ciò che muta drasticamente sotto la Repubblica islamica è la condizione delle donne: il nuovo diritto civile le considera la metà degli uomini e le esclude dai ruoli chiave delle istituzioni. Ma, esageratamente, le donne dei ceti più bassi soltanto dopo il 1979 accedono all'istruzione e al mondo del lavoro. Se prima della rivoluzione le studentesse erano meno del 20 per cento della popolazione universitaria, oggi sono oltre il 60 per cento. Oggi tante donne lavorano negli aeroporti, nelle scuole e negli ospedali. La "emancipazione nella dignità", secondo la formula dello stesso Khomeini, ha senza dubbio prodotto dei risultati positivi. È uno dei ricorrenti paradossi della storia della Persia. Nel 1971 Alessandro Bausani scriveva profeticamente che per sopravvivere l'Iran ha sempre scelto "continue ri-arcaizzazioni, che talora possono apparire, sì, artificiose, ma salvatrici". La fase autenticamente rivoluzionaria termina con la morte di Khomeini nel giugno 1989. Ciò che viene dopo di lui è frutto di dinamiche spesso contrapposte e in genere poco conosciute al di fuori dell'Iran. Nel 1988 si è conclusa l'immane e inutile strage della guerra con l'Iraq e sono stati liquidati migliaia di oppositori interni in carcere da anni. L'Iran dei primi anni novanta è stremato da dieci anni di guerra e lotte interne. Cerca stabilità, punta alla ricostruzione. Da allora, alla presidenza si sono succeduti il pragmatico Rafsanjani, abile ad accumulare un patrimonio personale enorme, il timido riformista Khatami, l'incendiario ex pasdaran Ahmadinejad. Ma a comandare davvero è sempre la Guida Suprema Khamenei, succeduto a Khomeini nel 1989 e vero monarca col turbante. Come dicono alcuni, l'Iran è il Paese musulmano in cui si vota di più e si cambia di meno. Prevale sempre la logica del clan, non il senso dello Stato. Chi "è dei nostri" (khodi) decide, chi no (kheir-e khodi) subisce. Il concetto di "società civile", entrato nel dibattito politico con Khatami, è ancora poco applicabile al contesto iraniano.

Chi è il nuovo Presidente dell'Iran.

Rohani, che succederà a Mahmoud Ahmadinejad, è nato a Sorkheh il 12 novembre del 1948, da una famiglia di oppositori dell'allora scià di Persia, Reza Pahlavi. E' un religioso sciita e un giurista. Politicamente, è di tendenza moderato-riformista e fa parte, dal 1987, del movimento della Società dei Chierici militanti. In precedenza, Rohani aveva militato nel Partito islamico repubblicano. Lo scorso 7 maggio, nella veste di Segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, ha deciso di candidarsi ufficialmente alla presidenza dell'Iran. Sul suo nome si sono coagulati i voti di moderati, riformisti, ma anche di una parte del clero iraniano. Rohani, che alla fine degli anni settanta durante la rivoluzione contro lo Scià ha ricoperto un ruolo di primo piano, ha ricevuto il pieno sostegno da parte degli ex presidenti Akbar Hashemi Rafsanjani( il re dei pistacchi; ne ho conosciuta la figlia anni fa a Padova) e Mohammad Khatami. "Sono qui - ha promesso in campagna elettorale - per stabilire un governo di saggezza e speranza, per amore di un Iran islamico, per salvare l'economia, per avere un'interazione costruttiva con il mondo e ristabilire la moralità nella società"(Ahi!). Rohani, tra il 2003 e il 2005, ha ricoperto l'incarico di capo negoziatore per il dossier sul nucleare. In Occidente è noto per la sospensione dell'arricchimento dell'uranio a cui si era giunti all'inizio del suo mandato. Pur favorevole al programma nucleare, egli è, tuttavia, sostenitore di una politica estera più moderata e maggiormente volta al dialogo con l'Occidente.

Chi comanda in Iran?

È la domanda a cui da quasi trent'anni si cerca di dare una risposta nel mondo occidentale, cadendo tuttavia spesso nell'errore di considerare il sistema politico iraniano monolitico e impenetrabile. Al contrario, il regime della Repubblica Islamica dell'Iran è altamente eterogeneo e dominato da un acceso fazionalismo che ne rende estremamente vivace la natura e complessa l'analisi.

Non bisogna mai trascurare, per comprendere l'Iran, di soffermarsi sul carattere dei persiani e sulla loro atavica ossessione per l'occultamento e la dissimulazione. Eludere la capacità di comprensione della controparte, e al tempo stesso celare la propria realtà, è per i persiani non solo motivo di vanto ma soprattutto condizione di sicurezza minima e necessaria per proteggersi dalle intenzioni potenzialmente malevole del prossimo. Ogni cosa in Iran, dalle abitazioni alle strutture organizzative, è conseguentemente modellata su questi due princìpi.

L'architettura istituzionale della Repubblica Islamica dell'Iran è la più riuscita operazione di dissimulazione nella storia nazionale. Essa confonde nel complesso ingranaggio di ruoli ed organi la realtà di due piani paralleli di gestione del potere. L'uno apparente, ma spesso non reale; l'altro reale, ma spesso non apparente.

Per comprendere appieno il disegno ed il funzionamento dell'architettura del potere in Iran è necessario soffermarsi però brevemente su tre fondamentali premesse storiche.

Innanzitutto è opportuno ricordare che la rivoluzione, così come poi la costruzione della Repubblica Islamica, non fu espressione del disegno e dell'azione del vertice del clero sciita ma, al contrario, dei suoi membri più giovani e politicamente attivi, sotto la guida di un ayatollah, Ruollah Khomeini, in esilio da quasi vent'anni. Il «clero combattente», così come si suole definire quella porzione di religiosi che attivamente partecipò alla rivoluzione del 1978-'79, non operò quindi come espressione di un movimento religioso sciita unitario e di impronta nazionale, ma come una falda separata e dissidente. Ancor oggi, numerosi alti esponenti del clero sciita iraniano biasimano o apertamente condannano sia la commistione tra politica e religione sia il principio stesso del velayat-efaqih, cardine spirituale ed istituzionale della Repubblica Islamica dell'Iran.

È poi necessario ricordare come la rivoluzione fosse solo parzialmente «islamica», anzi abbondantemente laica e secolare nella composizione delle forze che la determinarono. L'Iran divenne una teocrazia islamica successivamente alla vittoria della componente radicale nella compagine rivoluzionaria, attraverso un'escalation che partì dall'occupazione dell'ambasciata Usa a Teheran e culminò nella guerra con l'Iraq. Alcune delle motivazioni che avevano genuinamente spinto milioni di persone a ribellarsi allo Scià vennero tradite, imponendo al Paese un esperimento politico e religioso senza precedenti.

La guerra Iran-Iraq, infine, ha consolidato al potere una nuova generazione, espressione del complesso e spesso impenetrabile universo dei pasdaran. La scelta del clero combattente di creare una propria milizia di popolo dalla forte impronta religiosa ha dato vita ad un potente ed articolato sistema militare ed economico che oggi rappresenta la spina dorsale dell'impianto istituzionale rivoluzionario e che vive in modo sempre più indipendente dal sistema teocratico.

Il velayat-e faqih e il mito della Guida suprema della rivoluzione

La Repubblica Islamica dell'Iran è stata progettata dall'ayatollah Khomeini, durante il suo esilio a Naãaf in Iraq, attorno al suo cardine politico e religioso: il velayat-efaqih. Letteralmente traducibile come «governo del giureconsulto», il velayat-efaqihè un concetto antico della tradizione sciita duodecimana che, in estrema sintesi, riconosce il ruolo di guida (o anche «custodia», «guardiani») del faqih, il giurista islamico, sulla comunità dei credenti.

Non v'è mai stato accordo ai vertici del clero sciita - a riprova della sua storica collegialità e dell'assenza di un vertice unico ed unitario - circa il significato del concetto. La dottrina, infatti, si è da sempre divisa tra i sostenitori dell'interpretazione totalitaria, secondo cui la guida deve investire tutte le faccende religiose, politiche, sociali ed economiche dello Stato, ed i fautori dell'interpretazione che ne vorrebbe limitare l'applicazione alle sole materie religiose, con ciò nettamente separando la gestione del potere spirituale da quello temporale.

Storicamente la parte più erudita del clero sciita ha sempre dimostrato un certo grado di contrarietà, parziale o totale, alla visione totalizzante del velayat-efaqih. Ancor più controverso è sempre stato il tema della rappresentatività dei marja (ovvero letteralmente di coloro che sono «fonti di ispirazione»), e di conseguenza dei grandi ayatollah, ayatollah-uozma.

Con la rivoluzione del 1978-'79, grazie anche e soprattutto alla partecipazione della parte più giovane ed attiva del clero, vinse la scuola di pensiero totalitaria. Il velayat-efaqih venne inserito come elemento fondante della nuova Carta costituzionale promulgata nel 1979. Una costituzione pensata per sancire il ruolo dell'ayatollah Khomeini, padre della patria e fondatore della Repubblica Islamica dell'Iran, piuttosto che come impianto capace di reggere nel tempo. La figura istituzionale della Guida suprema della rivoluzione venne definita e modellata sulla persona di Khomeini, unica e irripetibile.

Questo impianto resse sino alla fine degli anni Ottanta, quando con il progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute di Khomeini si dovette individuare chi potesse subentrargli. Non certo il grande ayatollah Montazeri, un tempo designato alla successione, ma nel 1989 già da parecchio tempo all'opposizione ed in aperto contrasto con lo stesso principio del velayat-efaqih. Nemmeno la gran parte degli altri marja, più impegnati nel dibattito teologico che interessati a rivestire una così controversa carica. Conseguentemente si iniziò ad esplorare una cerchia meno qualificata di esponenti del clero, specie nell'ambito del clero combattente, per individuare alla fine in Ali Khamenei il candidato più adeguato. Khamenei tuttavia non possedeva quasi nessuna delle caratteristiche necessarie alla Guida suprema della rivoluzione. All'atto della selezione era ancora un hojjatoleslam, grado inferiore rispetto a quello di ayatollah e ovviamente di grande ayatollah.

Il problema della successione venne risolto con la nomina, di chiara matrice politica, di Ali Khamenei, attraverso un processo di riforma costituzionale che modificava profondamente non solo l'assetto istituzionale del Paese (veniva meno ad esempio la figura del primo ministro), ma soprattutto eliminava il fondamentale attributo del marja'iat (ovvero l'essere ufficialmente riconosciuti come marja) per la Guida suprema della rivoluzione. Al tempo stesso Ali Khamenei venne acclamato ayatollah, colmando in tal modo anche la vistosa lacuna gerarchica. Ma la sua ijtihad (credenziali giuridiche) resterà per sempre discussa ed oggetto di critiche.

La nomina di Khamenei con l'escamotage politico della riforma costituzionale, tuttavia, determinò una profonda trasformazione nella concezione del velayat-efaqih e del ruolo della Guida suprema della rivoluzione. Mentre il carisma e la storia dell'ayatollah Khomeini avevano concesso al fondatore della Repubblica Islamica dell'Iran un rango unico e l'avevano dotato di un potere pressoché assoluto - in applicazione della concezione totalitaria del faqih- le deboli credenziali di Khamenei e la discussa procedura di nomina della nuova Guida suprema della rivoluzione comportarono il drastico ridimensionamento del rango e dell'autorità personale del rahbar (Guida suprema) rispetto al passato. Tale ridimensionamento, tuttavia, non fu sancito da un'ulteriore riforma istituzionale, bensì dal tacito accordo tra i vertici di quel sistema teocratico del clero combattente che da allora aveva uno dei suoi al vertice della Repubblica Islamica dell'Iran.

C'è quindi un'abissale differenza tra il ruolo della Guida suprema della rivoluzione oggi e ai tempi dell'ayatollah Khomeini, a dispetto di quella visione monolitica e tipicamente occidentale che vede ancora nella Guida suprema un potere assoluto e incontrastato.

Con la nomina di Khamenei si è tornati di fatto ad un sistema sì teocratico, ma più squisitamente e tradizionalmente sciita, con il prevalere dunque di una concezione collegiale del potere, da esercitare attraverso complessi e farraginosi meccanismi che consentano, di fatto, a tutta la cerchia di comando di esprimere un giudizio, un ruolo ed una posizione all'interno del sistema. La Guida suprema della rivoluzione è quindi oggi maggiormente ancorata ad un ruolo di garanzia e soprattutto di mediazione tra le eterogenee e perennemente conflittuali componenti del fazionalismo iraniano. Un ruolo delicatissimo, svolto abilmente da Khamenei soprattutto attraverso il tradizionale ricorso alla sfera informale di definizione e gestione del potere, ovvero il piano parallelo degli incontri e delle mediazioni private che fanno del sistema politico iraniano un modello unico ed apparentemente impenetrabile.

Il circolo ristretto

L'architettura istituzionale rivoluzionaria pre e post-riforma del 1989 è imperniata su un sistema a doppio livello, equamente ripartito tra organi eletti dal popolo e altri di diretta emanazione religiosa. La struttura è presieduta all'apice, ma non necessariamente governata, dall'ufficio della Guida suprema della rivoluzione e da due organi non eletti, il Consiglio dei guardiani e il Consiglio per i pareri di conformità. Il primo è composto da sei giuristi e sei teologi, questi ultimi nominati direttamente dalla Guida suprema, i primi nominati dal vertice del potere giudiziario e ratificati dal Parlamento.

Il ruolo del Consiglio dei guardiani è di approvare le leggi, successivamente alla verifica di conformità con le norme costituzionali e con quelle islamiche, nonché di esprimere il gradimento sui candidati alle elezioni politiche, presidenziali e dell'Assemblea degli esperti. Il Consiglio per i pareri di conformità è un organo consultivo della Guida suprema della rivoluzione soprattutto nel deliberare sulle dispute legislative tra il Parlamento ed il Consiglio dei guardiani. È composto da un numero variabile di membri (oggi 27, oltre a 5 cariche istituzionali di diritto), nominati direttamente dalla Guida suprema.

Gli organi eletti a suffragio universale, invece, sono il Parlamento, il Presidente della Repubblica e l'Assemblea degli esperti, un consesso di 86 membri il cui principale scopo è di eleggere la Guida suprema della rivoluzione e di riunirsi una volta l'anno per verificarne l'operato e approvarlo.

Completano la parte più forte del sistema istituzionale il potere giudiziario, di diretta espressione della Guida suprema della rivoluzione, e le Forze armate i cui vertici sono nominati dalla stessa Guida suprema.

La gestione dello Stato avviene su molteplici livelli, formali ed informali, attraverso l'esercizio delle funzioni proprie degli organi sopra menzionati. Sono tuttavia una ristretta minoranza coloro i quali possono vantare a ragione di far parte del circolo ristretto che effettivamente detiene, senza troppi formalismi e rigidità istituzionali, il vero potere esecutivo in Iran.

«Circolo ristretto» è una denominazione impropria riferita ad una cerchia di circa 45-50 individui, quasi esclusivamente esponenti del clero oltre ad un esiguo numero di laici, accomunati dal fatto di essere cresciuti alla sua ombra e sotto la sua protezione. Il clero è il vero dominus di questo circolo ristretto, ma non necessariamente i suoi esponenti rivestono cariche pubbliche o religiose. I suoi esponenti sono rappresentativi di quasi tutto lo spettro politico iraniano, dal moderato riformismo al più esasperato radicalismo conservatore, ma hanno storicamente condiviso un valore comune che ne ha favorito la durata nel tempo ai vertici dello Stato: la volontà di proteggere la Repubblica Islamica e i suoi princìpi rivoluzionari attraverso la parziale, costante chiusura rispetto all'esterno, senza tuttavia rischiare lo scontro diretto con alcuna potenza rivale. Qualsiasi divergente visione all'interno dell'eterogenea compagine del circolo ristretto si è sempre piegata alla ragion di Stato, ossia alla salvaguardia della Repubblica Islamica dell'Iran.

Ne consegue che il vero livello negoziale e di dibattito non è quello ufficiale degli organi istituzionali e delle molteplici e complesse strutture della Repubblica Islamica ma, al contrario, è rappresentato da una innumerevole sequela di incontri ristretti e separati.

In questo quadro, la Guida suprema della rivoluzione ha una duplice veste. È esponente del circolo ristretto, ma anche mediatore superpartes cui viene generalmente riconosciuta una funzione di raccordo negata al singolo componente. La Guida suprema della rivoluzione torna quindi ad esercitare un compito di mediazione in un consesso collegiale dettato oggi da regole sempre meno aderenti alla teoria totalitaria del velayat-efaqih.

La cerchia ristretta, infine, è espressione di una ben definita, potente ed assai articolata dimensione economica e sociale. Spesso ma non sempre sulla base del criterio regionale di provenienza, il circolo ristretto si divide il controllo degli affari economici e di gestione della società, attraverso un sistema di attribuzione verticale che impedisce di fatto la creazione di aree di conflitto o di sovrapposizione. La gamma estremamente diversificata dei portafogli di riferimento, infine, permette lo sviluppo di un'economia di mercato e soprattutto l'instaurazione di solidi e proficui legami con l'estero.

L'organizzazione e la pratica gestione delle attività di cui sopra è di norma affidata alle potenti e capillari bonyad (fondazioni), oggi in larga misura dominate ai vertici da esponenti dell'universo dei pasdaran.

La cerchia ristretta è tuttavia caratterizzata da una peculiarità che ne inizia a segnare il destino, favorendo l'ascesa di nuove e diverse generazioni del potere. È quasi del tutto assente infatti un meccanismo di gestione interna della transizione. Il sistema sembra essere nato per esaurirsi con la fine del gruppo che lo ha dominato, senza delfini o giovani ayatollah capaci di rappresentare la linea evolutiva del clero combattente. Ciò a causa del difficile e spesso conflittuale rapporto tra la linea di comando e il clero tradizionale delle principali città religiose del paese. Pochi hanno voluto addentrarsi dopo la rivoluzione nel campo della commistione tra religione e politica, di fatto provocando l'isolamento della cerchia di comando rispetto alla componente tradizionale.

Ne deriva che la più plausibile forma di transizione naturale maturerà nell'universo dei pasdaran, che tuttavia è essenzialmente laico e per tale ragione potrebbe non gradire nel lungo periodo di essere regolato da un principio, il velayat-efaqih, che di fatto ne frustrerebbe ogni ambizione.

L'universo dei pasdaran

La rivoluzione, e soprattutto la crescente competizione tra le forze laiche e secolari e quelle religiose nella gestione della vittoria sullo scià, impose per la componente religiosa la creazione di una milizia armata che potesse svolgere il ruolo di aggregante all'interno della compagine rivoluzionaria e insieme di forza militare da contrapporre alle sempre meno agguerrite truppe imperiali oltre che alle sempre più ostili formazioni della sinistra storica iraniana (soprattutto i mojahedin-e khalq).

La Sepah-e pasdaran, o Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, è da individuarsi nella molteplicità di unità e gruppi più o meno organizzati che, al culmine della rivoluzione, si raccordavano tramite i komiteh, strutture rionali volontarie di sostegno alla causa islamica, fortemente radicali ed espressione della rivalsa dei ceti più poveri della periferia iraniana.

Solo il 5 maggio del 1979 venne ufficialmente costituita con decreto un'unità di guardiani della rivoluzione, organizzando e razionalizzando numerosi volontari fino ad allora dispersi in una miriade di piccole strutture locali. Nel 1980 - soprattutto in conseguenza della guerra con l'Iraq - ai pasdaran venne dato il mandato per la creazione e la costante mobilitazione di una forza volontaria di base, denominata Basij, da impiegarsi per la intensiva e massiccia difesa dello Stato.

È opportuno ricordare che i guardiani della rivoluzione sono stati concepiti essenzialmente come alternativa alle Forze armate tradizionali, l'Artesh. Queste ultime, infatti, nonostante durante la rivoluzione avessero evitato di intervenire e quindi favorito la caduta dello Scià, sono sempre state considerate dal sistema clericale come una forza ambigua, potenzialmente ancor oggi filomonarchica e certamente non idonea ad incarnare l'ideale islamico rivoluzionario. L'Artesh non è mai stata sciolta, e ha anche combattuto tenacemente durante il conflitto con l'Iraq, sebbene i pasdaran abbiano assorbito la gran parte dello sforzo bellico per esplicita volontà del vertice religioso, che in tal modo ne ha voluto decretare il rango e creare il mito, pagato con un elevato tributo di sangue.

I pasdaran rappresentano in Iran il riscatto dei ceti più bassi, che si legittimano durante gli otto anni di guerra con l'Iraq attraverso atti di eroismo indimenticabili. Un'abnegazione che permetterà al Paese, sebbene isolato e sotto embargo, di resistere e quindi di fatto sconfiggere l'atavico nemico al di là dello Shat al-Arab.

Sono i pasdaran, una grande forza di ispirazione religiosa ma di composizione laica, dotata di un establishment parallelo ed espressione di un'articolata matrice di interessi in tutto il paese. Le esigenze belliche consentono ai pasdaran di muoversi agilmente per consolidare la propria struttura organizzativa, creando una complessa rete industriale ed infrastrutturale che grazie alla gestione delle bonyadrende i guardiani della rivoluzione pressoché autonomi, dotati di una possente struttura militare ed industriale.

L'apparato ha saputo adeguarsi alle esigenze della guerra, meritandosi la stima e il riconoscimento della nazione per l'enorme tributo di sangue pagato. Sicché al termine delle ostilità i pasdaran sono una struttura moderna, rodata e capace, che trasforma il proprio assetto bellico in una struttura economica e finanziaria innovativa e capillare. Sebbene un gran numero di loro lasci la vita militare attiva alla fine dei combattimenti, i pasdaran restano compatti e coesi, dando vita ad un sodalizio particolarmente efficace e dettato da precise regole d'appartenenza che delimitano il gruppo e favoriscono la crescita di una nuova, potente oligarchia. Emerge così progressivamente nei primi anni novanta una nuova generazione politica iraniana. Un crescente numero di pasdaran riveste cariche amministrative ed istituzionali, affermando un controllo capillare del Paese, delle sue province e delle sue città.

I pasdaran restano fedeli all'ideale della rivoluzione che li ha voluti e creati. Ma col tempo anche al loro interno si fa spazio il tradizionale fazionalismo iraniano. Nascono fronde e gruppi eterogenei. E proprio il fazionalismo favorirà una sempre più intensa partecipazione politica degli esponenti dei pasdaran e dell'intelligence. I pasdaran, dunque, hanno saputo emanciparsi non solo nell'ambito del sistema militare dello Stato, spazzando via ogni iniziale frustrazione ed acquisendo a pieno titolo un ruolo fondamentale ed una dignità propria, ma soprattutto hanno saputo rendersi sempre più autonomi da quel sistema politico e religioso di cui sono espressione e del quale sanno di essere i successori.

Oggi i pasdaran costituiscono un enorme complesso militare, industriale, economico e sociale, una sorta di Stato nello Stato, con una massa critica in termini di voto e capacità di influenza senza pari nel paese. Nonostante la fedeltà al vertice dello Stato non sia mai stata messa ufficialmente in discussione, molteplici e sempre più evidenti sono le eterogenee posizioni politiche all'interno dell'universo dei pasdaran. Si coglie una spiccata propensione alla moderazione e al pragmatismo fra coloro che sono impegnati nella gestione delle attività economiche, con l'appoggio di una considerevole parte della struttura puramente militare e soprattutto di quella inserita nei gangli amministrativi del paese. Al contrario, sono divenute progressivamente più conservatrici ed ostili le unità «di nicchia», tradizionalmente propense a sostenere la visione fondamentalista del principio rivoluzionario islamico. Tra queste spiccano certamente la Ansar-e Hezbollah, forza paramilitare «in borghese» particolarmente nota in quanto destinata a sedare le proteste e le tendenze riformiste, la Brigata Gerusalemme, creata per supportare operazioni militari speciali e segrete - ad esempio offrendo sostegno a Õizbullåhin Libano - ma anche cerchie più o meno estese di appartenenti alle milizie volontarie basij( cfr. Limes Iran, guerra o pace.).

Allora?

Scompare così dallo scenario politico internazionale l'estremista Ahmadinejad e Hassan Rohani è il nuovo presidente dell'Iran, portando un vento di riformismo nel Paese degli Ayatollah.

Ha vinto anche l'elevata affluenza alle urne, pari al 72,7% dell'elettorato, che ha portato a una proroga di cinque ore della chiusura delle urne a cui è seguito lo spoglio.

Chi è il nuovo Presidente? Membro del clero e deputato fra il 1980 e il 2000, Rohani fa parte anche dell'Assemblea degli Esperti, organismo consultivo incaricato di collaborare con la Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei.

Nel 2003, su incarico del Presidente Khatami, si occupò di firmare il trattato di applicazione del Protocollo aggiuntivo al Trattato di non Proliferazione Nucleare, trattato che permette ispezioni a sorpresa degli impianti. Hassan Rohani, il neo-eletto presidente dell'Iran, nato 65 anni fa in un piccolo villaggio di montagna nel nord del Paese, è stato anche amico fidato e amatissimo dell'ayatollah che inaugurò il potere teocratico che tuttora persiste in Iran, Ruhollah Mustafa Mosavi Khomeini.

Dicono che sia un buon negoziatore, specie con i poteri occidentali. Speriamo che i tantissimi giovani iraniani siano contenti e che si possano muovere per il mondo come i loro coetanei del pianeta.

Auguri, Iran, Paese tosto ed ora- forse- più aperto all'Occidente.

Maria de falco Marotta

Maria de falco Marotta
Politica