IL COLORE BIANCO

La scienza del conoscere - Il mondo del "di fuori" - E dopo migliaia di anni... - La parabola - pare - di Einstein: il color bianco

LA SCIENZA DEL
CONOSCERE


La potenza della Metafora ci ha illuso di poter comprendere
tutto e ci ha trascinato a sfidare le forze della natura e a
pretendere un posto alla tavola degli dei

Non è certo questa la sede per affrontare lo spinoso problema
della "conoscenza", pertanto, consentitemi di proporre alcune
definizioni un po' volgarizzate ma di facile comprensione.

Definiamo come "di-fuori" (contrapposto al di-dentro) quell'insieme
di cose-e-relazioni, concrete-ed-astratte,
conoscibili-e-non-conoscibili che nel loro insieme formano
quello che Kant chiamava il "Noumeno".

E come "di-dentro" quel posto (reale o virtuale che sia)
interessato ad acquisire informazioni sul "di-fuori" finalizzate
alla realizzazione di una "mappa", di un modello metaforico dal
quale poterne desumere i possibili sviluppi.

Definiamo quindi "epistemologia" (La scienza del conoscere) come
l'interfaccia tra questi due "mondi", cioè quell'insieme di
strumenti sensoriali (materiali, concettuali o metaforici che
siano)

utilizzati dal "nostro di dentro" per acquisire informazioni sul
"nostro di fuori" .
IL MONDO
DEL "DI FUORI"
Come corollario notiamo che il cosiddetto mondo del "di fuori"
risulterà suddiviso in due parti: il "conoscibile, e il "non
conoscibile". "Conoscibile" sarà quella parte che riuscirà ad
interagire con gli strumenti di deduzione che fino a quel
momento avremo messo a punto, ed invece chiameremo "inconoscibile"
l'altra parte, la quale tra l'altro, finché non avremo adottato
nuovi strumenti in grado di rilevarla, a tutti gli effetti ci
apparirà semplicemente inesistente.

Il "gesto del conoscere", così definito, ci consente di
trasformare "l'esperienza" (cioè l'interazione dei nostri
strumenti col "conoscibile") in un mezzo utile per far
previsioni e, in seconda battuta, in un mezzo per trasferire il
"conoscibile" nel "conosciuto".

L'esercizio di tale metodologia e la fiducia crescente nella sua
capacità di fare previsioni, producono presto una sorta di
"digestione del conosciuto":

così il modello prima si trasforma in strumento e poi viene
introiettato ed annega in quel profondo mare di certezze che
chiamiamo "sapere".

Qualcuno liquidò questo processo in maniera sbrigativa ma
brillante definendo Il sapere come "ciò che rimane della
conoscenza dopo che abbiamo dimenticato tutto il resto." Così
succede, ad esempio, che per prendere la patente ci esercitiamo
con sequenze di gesti ostici, digeriamo insuccessi e liturgie
frustranti: finché di colpo, rimosse fatiche e frustrazioni, ci
ritroviamo improvvisamente a guidare l'auto ascoltando la radio
e conversando col nostro passeggero.

Cosa è successo? Il volante, magicamente, si è trasformato in
una estensione delle nostra braccia, il motore ed i freni in una
estensione dei nostri piedi e l'automobile stessa in una
estensione del nostro corpo ed, in fin dei conti, del nostro
desiderio di girare a destra (o a sinistra).

Questo è il modo. E per generazioni il "sapere" ha continuato a
migrare, come per incanto, da un individuo all'altro attraverso
l'emulazione ed il tirocinio.

Chi voleva acquisire "knowhow", si poteva recare, a seconda dei
casi, dal "Saggio", dal "Mago", dal "Maniscalco", ma da costoro
riceveva invariabilmente solo indecifrabili alchimie e
vessazioni iniziatiche.

Da chiunque si recasse il compito dell'"Apprendista Stregone"
era sempre lo stesso: doveva preparare la cena, lavare per
terra, pulire i cessi e se avesse mostrato qualche idiosincrasia
essa sarebbe subito diventata la sua attività prevalente.

E guai ad allungare le mani verso gli strumenti del mestiere (o
a fare domande pertinenti), come all'allievo nella favola zen
per l'interesse mostrato avrebbe ricevuto in compenso una riga
di legnate.

Ma poi, un bel giorno, il Maniscalco moriva e l'allievo, di
colpo e con stupore, scopriva di sapere forgiare , scopriva che
il Sapere del maestro, come per magia, era migrato in lui e
scopriva infine di essere diventato lui stesso un Maniscalco.

E DOPO
MIGLIAIA DI ANNI...


Così andarono le cose per migliaia di anni, ma alla fine accadde
qualcosa di esplosivo e rivoluzionario: qualcuno scrisse un
"manuale".

Certo il fenomeno cominciò molto prima, infatti qualcuno, prima,
aveva imparato a raccontare le storie più complesse attraverso
il linguaggio metaforico ("..come talor toro furente - della
montagna i fianchi discende - e tutto travolge…" vi ricordate
l'Iliade?) e qualcun'altro aveva già iniziato ad incidere quelle
storie sui monumenti di marmo o sui papiri, ma quando apparve il
primo manuale l'umanità, folgorata e travolta, iniziò quella
trasformazione che presto l'avrebbe (definitivamente?)

differenziata dal resto degli animali.

Abbiamo detto rivoluzionario ed esplosivo: rivoluzionario,
perché da quell'evento in poi chi avesse voluto imparare
qualcosa avrebbe potuto desumerne "il knowhow" dalle metafore
espresse nel manuale, ed esplosivo poiché lo stesso manuale
(riprodotto in scala) avrebbe potuto istruire una moltitudine di
allievi anche contemporaneamente.

Da allora è stata inventata una Metafora adatta per ogni branca
dello scibile, è stato scritto un manuale per ogni cosa e sono
stati sperimentati i più fantastici mezzi per renderli
disponibili (dalle Tavole di Mosè ad Internet) producendo quel
fenomeno che chiamiamo "globalizzazione".

Così, la potenza della Metafora ci ha illuso di potere
comprendere tutto e, in un delirio crescente e condiviso, ci ha
trascinato (novelli Tantalo) a sfidare le forze della natura e a
pretendere un posto alla tavola degli dei.

A questo punto non possiamo fare altro che toglierci il
cappello, rispettare un minuto di silenzio e riflettere su di
una parabola che, sembra, raccontasse Einstein a coloro che gli
avessero chiesto di spiegargli la relatività:


La parabola - pare
- di Einstein: il colore Bianco
Un giorno, camminando in campagna, un cieco passò vicino ad una
cascina ove un contadino stava accudendo agli animali del
cortile.

Il cieco era immerso nei suoi pensieri ed era ossessionato dal
problema del Bianco. Egli conosceva il nome di quel colore ma
per quanti sforzi facesse non riusciva a comprendere cosa
potesse significare. Sicché si fermò, si rivolse al contadino e
così gli parlò:

- Buon Uomo, Lei che è così pratico delle cose della terra, mi
potrebbe spiegare cosa è il Bianco?

- Beh, rispose il contadino, E' facile: il Bianco è il colore
delle penne del Cigno!

- Il colore delle penne del Cigno? Io so cosa sono le penne,
disse il cieco, ma non so cosa sia il Cigno.

- Ha presente un'oca? Ebbene il Cigno è come un'oca, ma molto
più grande e con il collo lungo ed adunco.

- Con calma: posso immaginarmi un'oca grande ed anche un collo
lungo, ma non riesco proprio a capire cosa sia "Adunco".

Il contadino, forse spazientito, si avvicinò al cieco e gli
disse:

- Stia bene attento.

Così dicendo gli prese un braccio con ambedue le mani e
mantenendolo ben teso aggiunse:

- Vede, così è dritto.

Quindi colle mani piegò il braccio del cieco in maniera che
assumesse una curva simile a quella del collo del Cigno.

- e così è "Adunco"!

Il cieco si concentrò sulla forma del braccio per percepire il
concetto, quindi sorrise come pervaso da una illuminazione e
disse:

- Grazie, ho capito...


Mario Quaglia

GdS 28 VII 2002 - www.gazzettadisondrio.it

Mario Quaglia
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