10 20 20 MICHELE ZAPPINO "DEMIURGO DELLA TERRA E DEL CIELO"
Nativo di Zungri (VV), calabrese doc, Michele Zappino si trascina dietro il suo mondo ancestrale, agricolo-pastorale, di un'infanzia smitizzata, povera, a curare le "bestie", a vangare sodo nel campo o a raccogliere ghiande ed olive da stendere sull'aia della vecchia casa.
Figlio di contadini dalla vita dura, senza sogni alla cintura, Michele è destinato al triste mestiere di "pecoraio", là sui monti delle alture del Poro, dove si mastica pianto e solitudine e si diventa uomo anzitempo. La sua vita sembra uscita da un romanzo d'appendice. Studentello squattrinato delle Medie, incontra il suo mentore in un tal Reginaldo D'Agostino, suo insegnante di Educazione Artistica che intravede in lui grandi potenzialità d'artista. La folgorazione sui banchi di scuola dinanzi a un secchio di cruda argilla plasmata in un volto straordinario sotto i suoi occhi incantati. Un destino segnato, scolpito nelle magiche terrecotte di figure che balenano nello sguardo abbacinato del piccolo Michelino, ma che si scontrano con la dura realtà paterna che lo mette di fronte ad una scelta forzosa, senza opportunità. Senza alcuna possibilità di replica. Zappino, però, non si perde di d'animo e con tutto ciò che passa il convento, carta grossa da macellaio o da fornaio e una carbonella tenera rubata al focolare, crea i primi timidi abbozzi che gli permetteranno di crescere artisticamente.
"Steso supino sul pavimento freddo di casa, senza appoggio se non la nuda cassapanca, me ne stavo ore ed ore a disegnare fino a notte fonda, finché papà non mi rifilava a letto perché la corrente elettrica costava. Dimentico purtroppo delle altre discipline scolastiche, corsi il rischio reale di essere bocciato agli esami di licenza. Papà mi avrebbe ammazzato di botte perché voleva soltanto che io studiassi. Lui era uscito da una lunga prigionia ed aveva conosciuto solo stenti e fatica. Ma ne era venuto fuori con la sua inseparabile chitarra a cui di tanto in tanto, mi univo, purtroppo, in un duetto senza futuro", ricorda Zappino. I buoni uffici del suo professore che presentò, a sua difesa, un vero e proprio pamphlet contro ottusità pressappochista di stolidi mestieranti di cultura, ottengono fortunatamente una revoca della condanna capitale con un semplice rimpasto a settembre. "Meglio un vero artista che 100 operai", decretò il preside Miceli. Gli anni al liceo artistico di Vibo scivolarono via come pioggia d'aprile sulla pelle di gemine foglie di gelsomino. Poi il sogno per Zappino sembra avverarsi con l'iscrizione alla mitica accademia di Brera. Il suo approdo nella metropoli lombarda è disarmante. Dopo una breve parentesi presso dei cugini emigrati al Nord, trova casa a Meda con una stanzetta senza bagno, solo una brandina sgangherata senza materasso da giaciglio e, per cuscino, un mattone forato da muratori. Sacrifici. Tanti, per racimolare le 7000 lire per l'affitto di casa e per l'abbonamento mensile da Meda a Milano per frequentare i tanto agognati corsi con il maestro Francesco Messina. Sacrifici e tanto studio, sorretti da una incredibile passione.
"Alla fine, dal '71 fino alla pensione nel 2007, il professore all'Accademia delle Belle arti di Brera sono stato io!", ripete quasi in un filo di voce Michele.
Uomo, artista, cantore del creato, Zappino lascia segni indelebili di un'arte antica e universale, segno di una terra a cui sempre si torna, presto o tardi, nel grembo materno di una donna dove il tempo e le umane illusioni tacciono per sempre.
LE SUE OPERE
Veemenza selvaggia di cavalli liberi nel vento nella brughiera addormentata e una miriade di adolescenti in boccio, sospese sull'abisso terreno in un passo estatico di danza, oppure trame sottili di vite straordinarie scolpite nell'amarevole dolcezza di maternità sbozzate, figure filiformi e sinuose che indugiano su un'anatomia perfetta, in proscenio, sul palcoscenico di una vita trasfigurata dal sogno e da mani febbrili che creano crisalidi di pietra e di bronzo, inseminate da un demiurgo aspro e crudele, colto dalla prensione dei sensi adulterati dalla frenesia del tocco.
Sacro e profano fusi nella materia incandescente della memoria impressa nel cuore, prima che nell'iride e la mente. Né si sa dove la ieraticità di forme procaci e seducenti indulga alla poesia o al canto rituale della preghiera solenne, oppure dove si erga l'estremo confine di un erotismo sacrale di angeli danzanti che invitano al cielo nel deliquio estatico di un corpo da carezzare, da amare, da compenetrare, in una liturgia dissacrante dei sensi sconvolti dall'ebbrezza bacchica del desiderio. L'estasi e il tormento.
Vita e morte, Eros e Thanatos che si cercano, si affrontano, si divincolano sensuali in una schermaglia d'amore senza fine, e si baciano teneramente sulla bocca, prima di abbandonarsi ad amplessi sfiancanti sulla battigia sferzata dal freddo aquilonio.
Zappino, l'alacre operaio della terra, scultore ferrigno che gioca col fuoco ed il lapis, pastore di sogni soltanto intuiti, presagiti e negati, guarda infine dall'alto del suo scranno d'artista e infonde vita con un soffio alla cruda materia che sotto le sue abili mani, in una mistica transustanziazione, diventa l'"alius" divino.
Nello Colombo