9 20 37 FRATELLI D'ITALIA?
Strano popolo quello italiano. Senza memoria, senza attenzione per la propria storia, senza curiosità per il proprio passato. Si tratta di un qualunquismo generalizzato che ormai ha completamente attecchito nelle giovani generazioni perse nell'idea perversa del successo. Eppure, la nascita dello Stato italiano, e degli italiani come popolo, è stata caratterizzata dal sacrificio di persone che per questa idea dell'unità del paese, nel segno dell'uguaglianza sociale ed economica, della libertà di espressione, del rispetto dei diritti umani, della fratellanza, hanno versato il proprio sangue, dato la propria vita.
Certo, questi ideali nobili sono stati subito traditi, fin dal primo governo italiano, sotto la guida di Francesco Crispi, un primo ministro che diede all'Italia nascente un'impostazione non proprio progressista e ignobilmente colonialista.
È proprio questa vicenda complessa e dolorosa che prova a raccontare Mario Martone, nel suo monumentale film Noi credevamo.
Duecentoquattro minuti (durata più televisiva che cinematografica) che regalano allo spettatore un affresco di incredibile sobrietà e precisione su quelli che sono stati i moti rivoluzionari che hanno portato nel 1861 alla proclamazione dello Stato italiano e poi nel 1871 all'unità definitiva, con Roma capitale. Rigore formale, chiarezza narrativa, recitazione sempre misurata, mancanza assoluta di compiacimenti estetici. Il racconto è incentrato alla massima lucidità. Martone indaga, ripercorre, ricostruisce, fa riemergere la storia di uomini che nel più completo anonimato hanno inseguito, voluto e messo in atto un ideale di libertà e di indipendenza. La regia dell'autore napoletano è perfettamente calibrata al tono severo della vicenda, non soverchia mai le questioni storiche e politiche. Martone ha dunque realizzato una grande opera di servizio (pubblico), ha ricordato agli italiani di oggi come mai esistono, e come mai esiste ancora questo paese. E l'ha fatto in modo alto, cioè senza l'uso della retorica nazionalistica.
L'ha fatto anche nel segno di un sentimento espressivo, quello della ricerca della verità, della volontà di parlare ai ragazzi di oggi di altri ragazzi (di cento cinquanta anni fa) che non inseguivano il potere personale e che credevano solo in un mondo migliore. A loro modo erano visionari, forse folli, uomini e donne convinti che al di fuori della logica della democrazia repubblicana non si potesse vivere nel rispetto del prossimo.
Poi sappiamo come è andata: la monarchia, l'atrocità e la vergogna del regime fascista, e poi ancora, dopo la ricostruzione e il boom economico, il terrorismo e la strategia della tensione, la mafia, la P2, la corruzione, l'imbarbarimento della politica e dell'economia.
"Noi credevamo" voleva un' Italia diversa. Se vedesse le condizioni in cui ora è ridotta quella dei nostri giorni, sarebbe devastante.
Il film: Noi credevamo
Titolo: Noi credevamo / Regia: Mario Martone / Sceneggiatura: Mario Martone, Giancarlo De Cataldo / Fotografia: Renato Berta / Montaggio: Jacopo Quadri / Scenografia: Emita Frigato / Interpreti: Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Edorado Natoli, Andrea Renzi, Renato Carpentieri / Produzione: Palomar, Rai Cinema, Rai Fiction, Les Films d'Ici, Arte / Distribuzione: 01 Distribution / Anno: 2010 / Origine: Italia, Francia / Durata: 204 minuti.
TRAMA
Tre giovani del sud Italia si ribellano al regime borbonico ed si mettono in contatto con le prime bande di rivoluzionari che intendono cambiare i regimi politici. I ragazzi si spostano dal loro villaggio e iniziano a girare l'Europa e il nord Italia entrando in relazione con i mazziniani e altri rivoluzionari. La lotta per l'indipendenza italiana sarà lunghissima, dolorosa e sanguinosa. Alla fine solo Domenico vedrà con i suoi occhi l'Italia per la quale aveva combattuto. Ma non sarà come l'aveva immaginata. Il regista si è ispirato a un libro di Anna Banti, e ha deciso di puntare sul racconto imperniato su Mazzini, i carbonari, i repubblicani, quindi gli antimonarchici, i Savoia; i giovani che nel Sud coltivavano una inattesa unità contro i Borboni e che si recavano a Parigi per intraprendere alleanze e avere finanziamenti (con lo scopo di assassinare Napoleone III per mano di Orsini poi preso e ghigliottinato). Non ci sono le Cinque Giornate di Milano, la Repubblica Romana e gli altri luoghi attraverso i quali si è svolta la storia patria prima del 1861, l'anno della proclamazione, e oltre. Una precisa scelta scandita in tre momenti organizzati sulle vicende di altrettanti personaggi-chiave tra la realtà e l'invenzione. Di Garibaldi si parla ma lo si vede poco, a cavallo in mezzo alle fiaccole. Si vedono le repressioni dei bersaglieri scesi nel Sud per annientare i briganti ma che, sono cose note oggi quanto mai tornate di attualità, commisero sbrigativamente incendi e uccisioni, pagine rosse di sangue. Il film è lungo, pochi esterni, molti interni, forse troppi. Domina un'atmosfera tanto drammatica da diventare persino tetra. Nessuno sorride. Le labbra e gli occhi dei personaggi sono tesi, preoccupati. Solo un canto, alla fine, per Garibaldi e i garibaldini. I patrioti vivono nella paura di essere trovati dalla polizia borbonica e soprattutto di essere traditi al loro stesso interno.Più che uno spettacolo, Martone ha fatto una lezione senza tentennamenti e concessioni sulla difficoltà dei "nuovi"italiani di capirsi, specie fra nordisti e sudisti, tra borghesi e contadini. Ahimè, si capiscono oggi???
CHI è IL REGISTA
Mario Martone è nato a Napoli nel 1959. Regista di teatro e cinema, e direttore dello Stabile di Torino, a cinquantun anni, avendo alle spalle una lunga avanguardia scenica e di opere, si è ispirato a un libro di Anna Banti, e ha deciso di puntare sul racconto imperniato su Mazzini, i carbonari, i repubblicani, quindi gli antimonarchici, i Savoia; i giovani che nel Sud coltivavano una inattesa unità contro i Borboni e che si recavano a Parigi per intraprendere alleanze e avere finanziamenti. In sintesi: è stato direttore artistico del Teatro Argentina di Roma per il triennio 1999-2001. Nel 1992 ha girato il suo primo lungometraggio, Morte di un matematico napoletano, che vince il Premio speciale della giuria a Venezia. Nel 1995 il suo secondo film, L'amore molesto, partecipa in concorso a Cannes e si aggiudica un David di Donatello. La forza del suo cinema sta in un stile narrativo aspro essenziale e diretto al limite della sgraziato e dello sgradevole. Nel 1997 ha girato insieme ad alcuni giovani registi napoletani il film a episodi I vesuviani e, nel 1998, ha diretto Teatro di guerra. Poi Noi credevamo che la Giuria della 67.ma Mostra non ha capito( figuriamoci Quentin Tarantino che più di mostri e killer non sa cosa sia la storia) e non ha gratificato neanche con un Osella. Eppure i due giurati italiani potevano informarli che l'Italia nel 2011 celebra i 150 anni della sua unità!
DOMANDE & RISPOSTE
Martone il suo è un film che rimanda più che mai all'oggi.
E' il presente che mi ha spinto a fare questo film che poi è stato condotto rigorosamente sul profilo storico, nel senso che non ho voluto strizzare l'occhio all'attualità o cercare delle forzature. Tutte le parole che vengono pronunciate dai personaggi storici sono parole che derivano dai loro scritti e lettere, quindi è un'opera documentata. Al tempo stesso il rapporto con l'oggi è molto forte, quello che per me conta è che sia lo spettatore a compiere questo lavoro.
Nel finale ascoltiamo le parole di Angelo/Lo Cascio sull'Italia "gretta, superba e assassina" che ha davanti a lui.
Sono parole che concludono il romanzo di Anna Banti. Si riferiscono all'Italia subito dopo l'Aspromonte, ma quest'Italia ha continuato a esistere negli anni successivi sino ai giorni nostri. Per fortuna ha continuato a persistere un'Italia democratica che a quella si è opposta. Questo scontro ha origine nel nostro Risorgimento e attraversa la storia italiana successiva. Non è uno scontro tra destra e sinistra, ma tra due anime antropologiche del Paese: autoritarismo e democrazia, declinabili in modi diversi. Nel film differenti sono i contesti in cui si svolge questa dialettica, per esempio all'interno del carcere. Esiste in Italia una spinta autoritaria, un rapporto tra le paure profonde del nostro Paese e la necessità di affidarsi a una forza che dall'alto, illudendosi, ci guidi in maniera forte e che in realtà ha prodotto in 150 anni molte tragedie.
Nel film ha voluto un riferimento alla Costituzione della Repubblica romana.
Non si vedono nel film scene di quell'evento storico, ma l'ho citata perché costituisce l'episodio chiave del Risorgimento messo in sordina e poco celebrato in un'Italia dove risiede il Papa. In quei nove mesi si è lavorato a una delle Costituzioni più avanzate d'Europa - suffragio universale, assegnazione delle terre ai contadini - nasceva un'Italia repubblicana repressa dalla Francia e abbiamo dovuto aspettare cent'anni.
Ha avuto difficoltà a mantenere la scelta di una lingua derivata dall'800?
I dialoghi lunghi spaventavano i produttori, ma io non ho ceduto. Essi derivano da testi originali, gli attori si sono così confrontati con una lingua obsoleta, dell'800. Gli interpreti hanno accettato questa sfida di rendere viva quella lingua, evitando di far parlare i loro personaggi dell'800 come se fossero dei giovani d'oggi, ma puntando a far comprendere il rapporto tra quel passato e il nostro presente. Gli attori sono stati i miei grandi alleati in questa sfida. Ho chiesto loro una recitazione antinaturalistica, in qualche modo teatrale, e che fosse in rapporto con la musica.
Nel film compaiono più volte elementi scenografici del presente.
Ho cercato di ricreare un '800 diverso da quello che siamo abituati a vedere. Se c'è una differente visione storiografica, ci deve essere una dissimile visione iconografica. Non l'800 derivato dall'impostazione viscontiana che fa da matrice per tutto l'800 cinematografico. Da una parte massimo rigore e esattezza dei luoghi, come per il processo alla banda Orsini nel carcere di Montefusco. Dall'altra parte era importante segnalare che non stavamo ricostruendo , ma cercavamo una reviviscenza nell'oggi. Sin dall'inizio si vedono cemento armato, fili elettrici disseminati in maniera più misteriosa. Dopo di che ci sono tre scene in cui ciò avviene in modo forte: il garage in cui Crispi riceve la bomba da Orsini; il carcere di Saluzzo dove vengono ghigliottinati Orsini e Angelo che è stato carcere di massima sicurezza fino agli anni '70 ospitando i brigatisti; la struttura di cemento armato, il non finito che ben conosciamo sulle coste del nostro Sud, che sarà l'Italia futura, dove dormono Domenico e Saverio nel loro viaggio verso Garibaldi.
E' raro vedere in un film sulla storia italiana il ruolo importante svolto dalla donne.
Noi credevamo non poteva essere, come è, una storia maschile, è una grande immersione maschile. Eppure il personaggio femminile protagonista del film non volevo che fosse una moglie, una madre, un sorella ma una donna con una sua posizione politica, con una dialettica, peraltro vincente, con gli altri personaggi . Cristina di Belgioioso è una figura straordinaria del Risorgimento, misconosciuta. E' stato importante lavorare sui suoi scritti, lasciando la lingua originale, chiedendo a Francesca Inaudi di renderli vivi, senza perdere nulla della sua statura politica.
Chi ha voluto rappresentare con il personaggio pessimista che nel capitolo finale vediamo sulla carrozza mentre porta con sé un cardellino?
L'uccellino rimanda a Anna Maria Ortese e al suo romanzo "Il cardillo innamorato", una scrittrice con una visione se non anti-illuminista pre- illuminista. L'uomo rappresenta l'unica figura non rivoluzionaria: non crede che il mondo possa essere rifatto, ed è meglio per lui vivere in una grandezza contemplativa della natura e del tempo. Direi che è una via indiana di accoglimento dei dolori della vita e del mondo.