ALDO PEDROTTI: l’Imprenditore della Valmalenco”

di Nello Colombo

Una lunga storia accomuna uomini valorosi che non esitano a lanciarsi nella mischia per una giusta causa, senza mai risparmiarsi, mettendo a repentaglio anche la propria vita per realizzare un sogno che pare irrealizzabile. Uno tra questi, Aldo Pedrotti, malenco doc, classe ’46, antesignano di un’arte millenaria ereditata dai propri avi, che ha imparato presto a dare vita alla nobile pietra scistosa del serpentino, la beola che a piccole e grandi lastre lastrica pavimenti e facciate, veste monumenti e copre da secoli antiche e nuove dimore, umili e gentilizie. Al Ponte del Curlo deve i suoi natali e gli anni felici dell’infanzia attorno alla mitica locanda gestita da mamma Marianna mentre papà Silvio col fratello Aldo “si spaccavano in quattro”, sperimentando l’aspra fatica del cavatore. Lì lungo i sentieri dove il Beato Rusca, “prigioniero innocente” benedisse il ruscello di Fontanamora, Aldo trascorse l’età più bella per fermarsi poi a meditare sui piccoli dispettucci fanciulli giù ai Salesiani per i primi studi. Ancora bambino è svezzato alla fatica, e cresce in fretta attorno alle prime lavorazioni che richiedevano sacrificio e grande mano d’opera. L’incontro con la sua bella Antonia alla balera “Bazar” di Torre in cui troneggiava una delle prime Tv della Valle, ha qualcosa di magico.  Lì ogni giovedì crocicchi di gente si accalcavano per seguire “Lascia o raddoppia” del mitico Mike. “Lavoravo allora all’Albergo Moderno” – racconta Pedrotti - e con un amico mi misi alla guida della sua Cinquecento, senza patente, per bighellonare verso Chiesa finendo al Bazar dove notai subito una bella ragazzina dagli occhi teneri – poteva avere 16 anni - che mi rifiutò il primo ballo, forse una mazurka.  Non mi persi d’animo e invitai allora la cugina che fu ben lieta dell’attenzione. Quanto bastò a tentare il secondo round che andò a buon fine. E da allora di anni insieme ne sono trascorsi oltre 57. Un amore che gli diede le ali per diventare l’ Imprenditore della “Valle della Pietra” in quelle cave, cuore pulsante dell’economia della Valmalenco.   Ancora oggi, come vele dispiegate al vento, lucide e smaltate, le coste di beola della cava del “Sasso dei Corvi” risplendono al sole della nuova estate con le loro vene grigioverde-argento levigate dall’uomo come bandiere dispiegate sul nudo mantello roccioso alpino. Accatastate come pile di legna da un certosino boscaiolo, le rocce spaccate come ossa spolpate di un’antica necropoli a cielo aperto, si leccano le ferite in un labirinto verticale di abeti e castagni in un paesaggio lunare che si affaccia dinanzi al cupo dirimpettaio franoso frammezzato da cuspidi di sassi cadenti. Eccoli i “Laboratori”, casupole fatiscenti più simili a tuguri improvvisati, chiavati da usci malconci di assi di legno sbilenche, e pietra su pietra accatastate come un castellaccio diruto di un Innominato rinchiuso nel suo dedalo di fonde gallerie in cui scendere, scendere, scendere come in un inferno marcio fino a 500 m., come in remote miniere risalenti al Basso Medioevo, per raccogliere il frutto della montagna da portare alla luce e tagliare sapientemente per portarselo in spalla fino al paese. Mai così lontano. Un’enorme frana di scuri detriti sembra precipitare a valle emergendo tra spuntoni rocciosi anneriti dal tempo: quel che resta di un paese fantasma coi primi insediamenti dei cavatori in cerca quasi di una vena aurifera introvabile. Ma la pioda era lì a portata di mano, martello e scalpello, per essere lavorata come duttile materiale che avrebbe irrobustito tetti e lastricati di povere e nobili dimore. Ed è qui che il piccolo Aldo, appena 8 anni da poco compiuti, s’irrobustisce nell’arte dei suoi avi, sulle orme paterne che gli insegnano a vivere e sopravvivere nelle viscere degli antri rocciosi malenchi facendone una passione insanabile che ancora oggi si porta dentro. Entrare nei bui cunicoli maleolenti falciati da sciabolate sinistre di luce delle lampade a carburo avrebbe fatto ingigantire le paure di chiunque. Ma il piccolo Aldo, sacco in spalla e voglia di stupire le attese paterne, s’incunea incurante tra le fenditure rocciose cercando la vena più morbida da mordere coi suoi piccoli arnesi di lavoro. “Non ho mai avuto paura: era tutta una scoperta per me. E cercare le piode più belle era il passatempo più gioioso per me.  – rivela Pedrotti coniando il suo icastico epitaffio: “Sono nato col lavoro.  Sto ancora lavorando. Morirò lavorando”.  Ed è così che nel tempo, ha continuato l’opera paterna al fianco del fratello Dionigi uscito di scena anzitempo, ritrovandosi solo a condurre un’impresa titanica prendendo a carico la progenie familiare e costruendo il suo impero roccioso con già 45 dipendenti al seguito. Un lavoro che lo assorbiva giorno e notte creando man mano un florido mercato estero dalla Germania al Lussemburgo, dal Belgio all’Olanda, dalla Svizzera alla Francia approdando fino alle lontane Americhe, a Singapore, in Australia, e poi ancora in Libano e in Arabia. Ininterrottamente. Indefessamente. Irrefrenabilmente.  La sua destrezza polilinguistica ha la scioltezza del dialetto malenco, frutto della sua conquista del mondo. “Nel’’87 – racconta l’irriducibile Antonia, stessa tempra d’acciaio e simpatia del suo uomo, la fedele compagna della sua vita rimasta in Valle a curare la prole e i suoi interessi domestici e imprenditoriali – è stato via per ben 287 giorni con la sua rozza valigia di campioni di 30 kg da portare con sé a diffondere la bellezza della pioda tellina.  E’ stata dura, ma la famiglia è la famiglia!”.  Lassù, tra le Alpi aguzze in cui si incunea il Disgrazia, un’antica tradizione era dura a morire e nei secoli racconta ancora le sue mille storie come quella del “Bàit e il pàst di mòrt”, un rito vecchio bacucco come il mondo, durante il quale i “giovellai”, i cavatori di serpentinoscisco, un tempo si riunivano in una sorta di corporazione, un consorzio che lo stesso Pedrotti, vanamente, nel 1974 aveva proposto di fondare alle 7 anime dell’estrazione malenca. Una condivisione che un tempo raccoglieva “il past di mort”, una specie di raccolta fondi per le famiglie dei loro compagni di lavoro che ci avevano lasciato le penne. E Aldo Pedrotti, sguardo dritto verso l’alto dove le mine brillano in un’incisione perfetta del costone roccioso, è ancora lì, in cima alla Cava dei Corvi, sulle barricate della vita, a combattere per sé e per gli altri, a continuare a credere che una morbida pietra possa ancora portare nel mondo l’immagine della sua terra e diffondere la storia dolorosamente meravigliosa dei suoi cavatori. E con questa, la Sua storia.

Nello Colombo
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